F1

Fernando Alonso: l’uomo delle glorie e dei destini avversi

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Prima di cominciare il tributo sul campione spagnolo è doveroso rivolgergli un grazie per aver contribuito da protagonista assoluto allo spettacolo offerto dalla Formula 1 nell’ultimo ventennio.

Il campionato nel 2019 perderà una pietra miliare, che nonostante il mezzo a sua disposizione, riusciva comunque ad attirare le folle grazie alla caparbietà mostrata in pista.

La Formula 1 non sarà dunque più la stessa: è un altro pezzo della vecchia generazione che se ne sta andando.

Un pilota vecchio stampo, che metteva l’intelligenza e il cuore in un piano superiore rispetto alle proprie abilità di guida e alle prestazioni.

Un pilota che ha sicuramente diviso le opinioni degli appassionati, non tanto per la qualità del pilota in se stessa, quanto per la sua nota tendenza caratteriale molto latino-mediterranea di accentrare tutta l’attenzione su se stesso, andando a volte a danneggiare l’immagine delle sue scuderie e compagni di squadra.

Ma anche questo fa parte dello sport.

La bellezza di aver visto correre un pilota come Fernando sta proprio nella fame di vittoria che l’ha sempre contraddistindo, nel bene o nel male. Motivo per il quale ha deciso di ritirarsi dalla classe regina, che a suo dire non gli garantiva le stesse motivazioni e stimoli di una volta, per approdare nel terreno americano nella IndyCar, alla ricerca della tanto voluta 500 Miglia di Indianapolis che gli consentirebbe di aggiudicarsi la storica Triple Crown (conseguita dal vincitore del Gran Premio di Monaco di Formula 1, della 24 Ore di Le Mans nel campionato di Endurance e dell’apppena citata Indy500), da considerarsi alla sua portata, avendo già vinto le prime due.

Un pilota cresciuto, parlando di Formula 1, inizialmente nell’italiana Minardi (che corrisponderebbe all’attuale Toro Rosso, avendo comprato il pacchetto dell’intera scuderia), ma soprattutto sotto l’ombra di Flavio Briatore, noto imprenditore e dirigente sportivo italiano, colui che ha scoperto e coltivato il pilota che forse più di tutti ha stravolto gli equilibri, la storia e i record della Formula Uno, Michael Schumacher, ai tempi della Benetton, che gli appassionati ricorderanno benissimo. E’ Flavio che lo volle a tutti i costi nella Renault, della quale era il team manager. Mai scelta fu più azzeccata, con la vittoria di due mondiali consecutivi, nel 2005 e nel 2006, mettendo tutti in riga, a partire dal centauro Schumacher fino ad arrivare all’ormai affermantissimo Kimi Raikkonen, all’epoca in Mclaren, una macchina fortissima ma che ha dovuto però pagare l’inaffidabilità del motore Mercedes, senza contare le sfortune (alcune veramente clamorose, come nel Gran Premio d’Europa al Nurburgring, dove all’ultimo giro, mentre era in testa ebbe un cedimento alla sospensione anteriore sinistra, che lo mise ko, con Alonso che usufrì della sfortuna del finlandese).

Con il finlandese e il tedesco la rivalità fu comunque sana, possiamo dire senza screzi, considendo che il primo è sempre stato restio ad esporsi in pubblico con opinioni azzardate e senza mai dare adito ad alcuna polemica, mentre il secondo aveva già raggiunto tutto quello che poteva raggiungere, l’apice del successo.

Quella del pilota asturiano sembrava una cavalcata destinata non certo a finire nell’immediato, dopo il passaggio in McLaren, che si contendeva la palma di macchina migliore del campionato con la Ferrari, che aveva ingaggiato proprio Raikkonen dalla McLaren, affiancato da Felipe Massa, pilota brasiliano cresciuto in maniera esponenziale sotto l’ombra di Schumacher. La McLaren affiancò allo spagnolo un giovanissimo e debuttante Lewis Hamilton, inglese e vincitore del campionato di GP2 l’anno precedente, cocco del team e del boss Ron Dennis.

Proprio i conflittuali rapporti con quest’ultimo e l’incredibile competitività del giovane Hamilton capace di mettere molte volte in ombra il compagno campione del mondo in carica, oltre chiaramente alla competitività della Ferrari con entrambi i piloti, misero in salita le aspettative di vittoria del mondiale 2007 per lo spagnolo.

Il culmine fu raggiunto nelle qualfiche del Gran Premio d’Ungheria, quando l’asturiano rallentò volontariamente Hamilton nella sosta ai box per aiutare la sua strategia nella corsa alla Pole, che puntualmente fu colta da Fernando, mentre l’inglese non era neppure riuscito a cominciare il tentativo decisivo a causa del ritardo causato dalla mossa di Alonso, che pagò in maniera salatissima con la penalizzazione da parte della direzione gara con ben cinque posizioni in griglia.

E il mondiale come andò a finire? Vittoria clamorosa di Kimi Raikkonen, con Hamilton che senza la famosa distrazione in entrata di corsia box in Cina, avrebbe potuto chiudere il mondiale in suo favore già con una gara di anticipo, in un anno segnato dalla vergognosa vicenda della spy-story. Con Alonso che la passò liscia finendo a pari punti con il Hamilton e appena un punto sotto rispetto al campione del mondo Raikkonen, ma non facendo i conti con l’opinione pubblica, che lo condannò pesantemente considerandolo un elemento di discordia all’interno del team, oltre il fatto di doversi tirare dietro la vergogna di averle prese da un debuttante.

E’ l’inizio della fine per le glorie di Fernando Alonso.

A fine anno ritorna mestamente in Renault, che ormai non era più tra le contendenti al titolo, passando due anni constantemente a centro gruppo. In un bienno segnato dallo scandalo crash-gate, nel quale Flavio Briatore, che nel frattempo era sempre il team manager della scuderia francese, ordinò a Nelson Piquet Jr. di provocare un incidente, al fine di innescare un’entrata di Safety Car che avrebbe favorito la stategia del compagno Alonso, che l’avrebbe portato alla vittoria. E così fu. Risultato? Flavio Briatore fu radiato dalla Formula 1.

A questo punto nessuno poteva coprire più le spalle ad Alonso. Se voleva ottenere qualcosa di importare per il resto della sua carriera, doveva contare esclusivamente sulle sue forze.

Nel 2010 venne ingaggiato dalla Ferrari. L’occasione della sua vita per dimostrare la sua essenza di gran pilota tale da essere meritatamente campione del mondo. Nella scuderia più blasonata e importante del circus (oltre che tra i brand più influenti in assoluto a livello mondiale) ha di nuovo l’opportunità per vincere il titolo.

Già dalla prima gara in rosso, condita dalla vittoria nella gara stessa, sembrava l’inizio di un sogno.

Ma non andò secondo i piani dello spagnolo. Il lustro 2010-2014 si è rivelato deludente, non certo per colpa dello spagnolo, ma di una programmazione sbagliata da parte della scuderia italiana e della superiorità della Red Bull (avente come progettista il genio Adrian Newey) e di Sebastian Vettel, vero e proprio mattatore di quegli anni.

Nonostante tutto ha sfiorato il titolo nel 2010, perso in maniera scioccante; arrivato all’ultima gara con 11 punti di vantaggio sul rivale più diretto Mark Webber su Red Bull, il titolo che ando’ in maniera incredibile nelle mani di Vettel, che era addirittura terzo nel mondiale con 14 punti di svantaggio rispetto al ferrarista. A Fernando gli addetti ai lavori lo criticarono per la scarsa aggressività nel sopravanzare Vitalij Petrov su Renault, che lo tenne bloccato per tutta la gara. A sfavorire lo spagnolo però fu soprattutto la deficitaria strategia della Ferrari, che seguì quella di Webber, anch’essa sbagliata, spianando la strada al successo di Vettel.

Nel 2012 ebbe una grossa occasione. Si trattò probabilmente della migliore stagione di Alonso in carriera. Il suo carisma non bastò per sopperire al deficit tecnico della Ferrari F2012, forte in gara ma scarsa in qualifica. Basta ricordare la magnifica vittoria sul bagnato nell’inferno malese; l’indimenticabile perla di Valencia, riuscendo a vincere dall’undicensima casella in griglia dopo una serie di sorpassi da urlo; oppure la sua vittoria dominante in Germania dopo una Pole conquistata sul bagnato. Tant’è che arrivò a metà campionato con un margine di circa 40 punti di distacco su Webber, il suo più immediato inseguitore. Ma quella della Germania fu l’ultima vittoria della stagione e, complice del famoso incidente alla prima curva di Spa causato da un’allora agitatissimo Romain Grosjean (tant’è che beccò una squalifica per la gara dopo in Italia) e del contatto con Kimi Raikkonen (che nel frattempo aveva lasciato la Formula Uno nel 2009 per poi ritornare nel 2012 con la Lotus) alla prima curva del Gran Premio del Giappone, si vide rosicchiare tutto il vantaggio accumulato da Vettel, che, ritrovata la competitività della sua Red Bull a fine campionato prevarrà per appena 3 punti sullo spagnolo.

L’epilogo della gloria di Alonso lo abbiamo nel 2013, con la vittoria casalinga in Spagna. La Ferrari fino al Gran Premio della Malesia del 2015 non avrebbe più rivinto; per lui sarebbe stata addirittura l’ultima vittoria in assoluto in carriera.

Dopo aver lasciato in maniera burrascosa la Ferrari nel 2014 tra polemiche e rivoluzioni targate Marchionne, nel 2015 approda, anzi, ritorna nella McLaren, da quest’anno motrizzata Honda, sperando di rivivere i fasti delle vittorie di Senna e Prost a cavallo tra gli anni 80/90.

La scuderia inglese riuscirà a malapena a lottare per la zona punti, con Fernando, comprensibilmente spazientito, che darà adito a proteste di scherno contro il propulsore giapponese. Con la McLaren che nel 2007 rappresentò, come detto prima, l’inizio della fine, il ritorno in essa ne ha sancito la fine vera e propria.

A dimostrazione del fatto che Fernando, con altre scelte fatte con migliore tempistica, avrebbe ottenuto molto di più di ciò che ha raccolto.

Se da un lato ci potrà dispiacere dei suoi risultati mancati a livello puramente statistico, ancor più ci dispiacerà non rivederlo nel circus.

Buona fortuna Fernando, con la sparanza che tu abbia una carriera ancora più fortunata di quella precedente.

Post Scriptum: Fernando, hai sempre sostenuto di credere nel destino: non è che sei in conto con quest’ultimo?

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Tommaso Palazzo

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