Calcio

Il mito eterno del Grande Torino

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25 Maggio 1967. Finale di Coppa dei Campioni. In campo la Grande Inter del “Mago” Herrera e il sorprendente Celtic Glasgow di Jock Stein, altro personaggio da epica calcistica, tanto che morirà in panchina colto da infarto nel momento esatto in cui la sua Scozia segna il gol qualificazione ai Mondiali di Messico ‘86. Ma questa è un’altra storia, direbbe il maestro. C’è un rigore per l’Inter, sul dischetto ci va Sandrino Mazzola e non sbaglia. Non è una sensazione nuova per lui. Tre anni prima ne ha messi due al Real Madrid di Alfredo Di Stefano nella finale al Prater di Vienna che diede la prima delle due coppe consecutive all’Inter. Al termine di quella partita, il fuoriclasse ungherese Ferenc Puskas gli si era avvicinato per dirgli che aveva giocato anche contro suo padre, Valentino, e che lui ne era degno figlio. Stavolta la coppa va al Celtic, ma a Sandrino rimane di aver segnato nell’atto finale della più prestigiosa competizione per club all’Estádio Nacional do Jamor a Oeiras, Lisbona. Non è un dettaglio. Quello è stato l’ultimo palcoscenico in cui suo padre si è esibito col Grande Torino in un’amichevole contro il Benfica, prima di volare e non tornare più a casa. Sandrino aveva sei anni e ne sono passati altri diciotto da quel 4 maggio 1949. “Father and Son” canta Cat Stevens.

“All the times that I cried, keeping all the things I knew inside”.

Il giorno dello schianto contro la basilica di Superga, finisce la storia del Grande Torino e ne inizia la leggenda. Il presidente Ferruccio Novo lo ha costruito in un decennio, rilevando la società nell’estate del 1939. Le prime tre stagioni sono di rodaggio, ma arrivano già elementi importanti come Franco Ossola, Romeo Menti e Guglielmo Gabetto. La svolta decisiva nell’estate del 1942, quando Novo versa una somma esorbitante al Venezia per assicurarsi Ezio Loik e il fuoriclasse Valentino Mazzola. Da quel momento non ce ne sarà più per nessuno. Nella stagione 1942-1943 arriva lo Scudetto, il secondo della storia granata. L’Italia è in guerra già da tre anni, ma il calcio non si è fermato finché il paese non si è definitivamente spezzato in due, con la Linea Gotica a segnarne l’anima. La Serie A ripartirà nella stagione 1945-1946. Il Torino ha lo Scudetto sul petto e nessuna intenzione di farselo scucire. Arrivano gli ultimi tasselli di un mosaico che farà epoca: Valerio Bacigalupo, Virgilio Maroso, Aldo Ballarin, Eusebio Castigliano e Mario Rigamonti. A guidarli c’è Egri Erbstein, ebreo ungherese la cui storia personale è stata attraversata dalla follia nazista. Lui e la sua famiglia sono stati afferrati per i capelli dalla mano del destino, calata dall’alto a dirgli che no, non era ancora il momento.

I granata non soltanto vinceranno, spesso stravincendo, ma contribuiranno a modo loro a risollevare un’Italia che sta cercando la strada per venire fuori dalle miserie della Seconda Guerra Mondiale. C’è da ricostruire tutto, anche il vissuto collettivo della nuova repubblica appena nata. Non avere nulla è una spinta in più per sognare, lo sport il terreno ideale per farlo. Anche il ciclismo, che in quegli anni ha lo stesso seguito popolare del calcio, riparte da dove aveva lasciato, dal dualismo tra Fausto Coppi e Gino Bartali. Nell’estate del 1948 Ginettaccio mette tutti d’accordo. Le prime elezioni politiche dell’era repubblicana hanno premiato la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi. L’Italia però è investita da quel nascente clima da Guerra Fredda che sta per avvolgere il mondo, la tensione sociale è alta e sfocia nella violenza.
La mattina del 14 luglio 1948 Palmiro Togliatti, leader del PCI, subisce un grave attentato. Si registrano scontri in diverse città, l’Italia sembra sull’orlo di una guerra civile. Si rincorrono accorati appelli alla calma da parte dei politici, anche dello stesso Togliatti dall’ospedale, ma a far breccia più di tutto nel cuore degli italiani sarà l’impresa di Bartali al Tour de France. Il toscano ha 21 minuti di distacco dal francese Louison Bobet, sembra finita, invece le telefonate dall’Italia che gli chiedono l’impresa rivitalizzano la stoffa del grande campione. Vince il trittico di tappe alpine e si porta la Maglia Gialla fino a Parigi. Gli italiani incollati alla radio impazziscono e la situazione torna progressivamente verso la normalità.

È questa l’Italia di quegli anni, bisognosa di eroi ed esempi da seguire. Il Grande Torino unisce tutti. Ha un legame indelebile con la città e diventa un punto di riferimento per l’intero paese. Arrivano valanghe di gol e scudetti uno dietro l’altro. Nasce il popolo del Filadelfia. Valentino Mazzola è il condottiero di una squadra che appare incapace di non vincere. Fino al 4 maggio 1949, quando «solo il fato li vinse». Sappiamo tutti della tragica fine di quella squadra, di un aereo di ritorno da Lisbona che si schianta sulla basilica di Superga in una giornata in cui il cielo piangeva già. Da allora gesta, gloria e Cuore Toro di quella squadra vengono tramandati di generazione in generazione e non svaniranno mai. C’è tutto questo in rituali come il pellegrinaggio annuale del popolo granata a Superga, col capitano di turno che squarcia il silenzio declamando i nomi degli uomini che persero la vita in quello schianto. Oggi, anno 2020, questo non sarà possibile, non nel solito modo almeno, con quel respiro collettivo che caratterizza l’appuntamento ogni anno. Ma il sentimento viscerale della gente sarà là.

Il Grande Torino rimarrà eterno quanto i cavalieri della Tavola Rotonda della corte di re Artù; il Filadelfia una fortezza inespugnabile, la Camelot dell’epopea granata. Col tempo la leggenda finirà per trasformarsi in mito. I nostri pronipoti faranno fatica a credere che sia realmente esistita una squadra del genere, con un capitano che si alzava le maniche al suono della tromba di un capo stazione e scatenava il quarto d’ora granata, una pioggia di gol che in pochi minuti si abbatteva sul malcapitato avversario di turno come un acquazzone improvviso in piena estate. Ma tutto questo è stato realtà, è successo in un tempo in cui «i calciatori erano come noi, solo che giocavano meglio a pallone».

Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola.

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Vincenzo Bruno
Laureato in Lingue e Letterature Moderne, nato a Palermo nel 1983, vive a Isola delle Femmine, piccola località costiera alle porte del capoluogo siciliano. Aspirante insegnante e appassionato di sport, letteratura e storie, nella sua pagina Instagram “Gente di Sport” alimenta l’amore per la scrittura facendovi convergere spesso le sue più grandi passioni. Due suoi racconti brevi, Notti Bianche e La Prima Volta, sono stati inseriti nella raccolta Pausa caffè: letteratura espressa, pubblicata da Prospero Editore nel 2016.

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