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Lo sport femminile non esiste

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Perché amiamo lo sport?

È molto probabile che la domanda vi sia stata posta in qualche circostanza, o che siate stati voi stessi a porvela. Provando a rispondere vi sarete ritrovati a elencare tutto ciò che vi piace dello sport, ma qualsiasi cosa potrete dire non risponderà mai a una domanda simile. Parafrasando David Foster Wallace, impossibile da descrivere concretamente, o evocare, cosa ci esalta fino a farci stare stretta la nostra stessa pelle e cosa ci sia in esso capace di lasciarci paralizzati per la delusione.

Lo sport è competizione, agonismo, è la ricerca di un limite da oltrepassare o avvicinare, è incontrare un ostacolo e trovare una soluzione che ci permetta di superarlo e andare avanti. Lo sport è tutte queste cose ed altre mille, ognuna delle quali è importante tanto quanto le altre. Per questo risulta difficile non considerare limitante la latente convinzione che quello praticato dalle donne abbia qualcosa meno di quello praticato dagli uomini. Non mi riferisco a chi lo denigra a tal punto da pronunciare frasi come “quello non è sport, è un’altra cosa”, se non peggiori, sproloqui che non meritano attenzione. Non parlo neanche del diverso spazio che dedicano i media ai due generi, perché spesso quello dipende dalla differenza di seguito, in ottemperanza alle leggi del mercato. Proprio per questo la riflessione si concentra soprattutto sugli appassionati “sani”, su chi apparentemente non ha pregiudizi, ma poi in fondo, a conti fatti, senza accorgersene, considera lo sport praticato da donne un po’ meno degno della propria attenzione. Guardiamoci dentro e proviamo a pensarci: quanti di noi che conosciamo le classifiche dei campionati di Serie A maschile di calcio, basket o pallavolo conoscono anche quelle dei rispettivi tornei femminili? Quanti di noi che ogni anno guardiamo la finale del torneo maschile di Wimbledon guardano anche quella del torneo femminile?

Apprezziamo meno uno stesso sport praticato da una donna anziché da un uomo soltanto perché non si vedono schiacciate, si salta meno, si va meno veloce o si tira più piano, ma è davvero questo il modo di valutare una performance? Se così fosse, si rischierebbe di ridurre le discipline a una semplice sequenza di gesti atletici da quantificare. E la sfida, il gesto tecnico, la strategia, l’aspetto mentale? Ciascun avvenimento sportivo porta con sé un vissuto emozionale che non ci abbandonerà mai, un’esperienza dell’anima in cui ogni cosa lascia una traccia. L’attesa alimenta l’immaginazione e la speranza, le gesta tecniche ed atletiche ci fanno trepidare, l’epilogo accende entusiasmi e malinconia, delusione e rivalsa.

Le performance sportive di una donna vanno parametrate su quelle delle altre donne, non su quelle degli uomini. Il campionato italiano femminile di calcio è di un livello nel complesso più basso di quello maschile, questo perché, per mille motivi, in Italia ancora arrivano raramente calciatrici di livello internazionale, e non perché “una qualsiasi squadra maschile di Eccellenza asfalterebbe la Nazionale femminile”, uno dei paragoni più illogici mai fatti. Le prestazioni di Cecilia Zandalasini e Paola Egonu non valgono meno di quelle di Danilo Gallinari e Ivan Zaytsev, anche se saltano meno e schiacciano più piano dei colleghi uomini, perché le due azzurre vanno valutate nel contesto femminile del basket e della pallavolo, in cui sono certamente considerate due atlete di altissimo livello internazionale.

Una delle obiezioni più ricorrenti è quella che sottolinea come in molti sport sia mediamente più basso anche il livello tecnico delle donne, non solo quello atletico, trascurando di riflettere sul fatto che questo dipenda in maniera decisiva dalle diverse possibilità di allenamento. Se calciatori e cestisti uomini sono considerati professionisti ed hanno i riflettori dei media, con tutto ciò che comporta in termini di giro d’affari, mentre le colleghe donne non hanno queste stesse opportunità, è chiaro che ai primi si consente di pensare quasi esclusivamente ad allenarsi e migliorarsi, mentre le seconde dovranno affrontare diverse altre difficoltà e avranno minori possibilità in termini di tempo e risorse. E questa differenza di trattamento dipende in gran parte da quanta considerazione noi appassionati manchiamo di dare alle donne dello sport. Televisioni e giornali si occupano di ciò che ha seguito, e anche la questione professionismo, con tutto il carico di vantaggi che comporterebbe, è molto più complicata di ciò che si crede. È proprio di questi giorni la notizia che la Commissione Bilancio del Senato ha approvato l’emendamento Nannicini alla Legge di Stabilità, sbandierato da più parti come “l’accesso al professionismo anche per le donne nello sport”. In realtà l’emendamento prevede misure tali che consentiranno alle società sportive di stipulare contratti di lavoro sportivo anche con le atlete. Tuttavia restano pur sempre le Federazioni a dover fare l’ultimo e decisivo passo in tal senso, ma se non lo hanno fatto fino a oggi non è stato soltanto per mancanza di volontà, ma anche perché questo passaggio va accompagnato da una crescita complessiva del movimento sul piano economico, per evitare che siano più gli svantaggi che i benefici. Ciò significa che un maggior interesse degli appassionati avvicinerebbe media e investitori, aumenterebbe il giro d’affari, darebbe più chance di un passaggio al professionismo e, come conseguenza di tutto ciò, maggiori opportunità di migliorare alle atlete.

Non si tratta di sentirsi in dovere di seguire gli sport anche quando praticati dalle donne, soltanto ci si domanda perché chi ama il tennis snobbi le WTA Finals, sua massima espressione al femminile, o perché un appassionato di pallavolo debba guardare con diffidenza la Serie A femminile, il campionato di maggior spessore in Europa. Un paio di anni fa chiesero a Cecilia Zandalasini perché valesse la pena seguire il basket femminile, la risposta fu semplice e disarmante come le sue giocate sul parquet: “perché è basket”. È esattamente questo. Lo sport è sport, non esiste quello maschile e quello femminile, è uno solo, praticato dagli uomini e dalle donne con le rispettive peculiarità. Tutto il resto fa parte di un pregiudizio silente in ognuno di noi, figlio di un retaggio culturale antico che in qualche modo limita anche le nostre possibilità. Basta guardarsi dentro con assoluta sincerità per accorgersene e provare a fare un passo avanti.

Perché amiamo lo sport? La domanda che ci siamo posti all’inizio può essere la stella cometa di questo percorso introspettivo, benché non possa esistere una risposta che spieghi qualcosa di così complesso. Meglio concentrarsi su ciò che questa passione ci dà occasione di vivere, inseguendo la piena consapevolezza che uomini e donne possono alimentarla alla stessa identica maniera.

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Vincenzo Bruno
Laureato in Lingue e Letterature Moderne, nato a Palermo nel 1983, vive a Isola delle Femmine, piccola località costiera alle porte del capoluogo siciliano. Aspirante insegnante e appassionato di sport, letteratura e storie, nella sua pagina Instagram “Gente di Sport” alimenta l’amore per la scrittura facendovi convergere spesso le sue più grandi passioni. Due suoi racconti brevi, Notti Bianche e La Prima Volta, sono stati inseriti nella raccolta Pausa caffè: letteratura espressa, pubblicata da Prospero Editore nel 2016.

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