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A volte ritornano: il curioso caso di Al Horford

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Atto I: Un doloroso addio

Il modo in cui Al Horford era andato via da Boston aveva lasciato l’amaro in bocca a parecchi tifosi. Nel disastro che era stata la stagione 2018/19, lui era sembrato l’unico veterano affidabile da affiancare a Tatum e Brown per ripartire. Invece, appena scattata l’ora della free agency, Horford aveva firmato un ricchissimo contratto con i Philadelphia 76ers, una delle dirette concorrenti ad Est. E poco importa che il suo inserimento nella città dell’amore fraterno non fosse andato secondo i piani della dirigenza.

La stagione passata a Philadelphia, infatti, faceva pensare che Al Horford fosse invecchiato e non potesse più essere quel riferimento per la squadra che era stato ad Atlanta e a Boston. Avrebbe dovuto integrarsi con Embiid e idealmente esserne un sostituto affidabile, ma non era riuscito ad essere nessuna delle due cose.

Anche il suo spostamento dal quintetto titolare alla second unit non aveva migliorato né le sue statistiche né l’andamento di Philadelphia. La stagione di quei Sixers si concluse al primo turno dei playoff, facendosi massacrare proprio dai Celtics con un sonoro 4-0.

Atto II: Lo Spettro della fine

Nell’estate 2020, Horford fu mandato senza troppi complimenti ai Thunder, squadra in piena ricostruzione. Ad Oklahoma City quasi scomparve dai radar, iniziando a saltare i back-to-back e progressivamente sempre più partite. C’era il sospetto che fosse solo una strategia di Sam Presti per continuare la sua opera di tank e ricostruzione della squadra, ma la fiducia nel centro dominicano era ai minimi storici dopo due stagioni in ombra.

Era veramente possibile che per un un giocatore come Al, che non è mai stato uno stat-padder o un dominatore dell’area e ha sempre dato il meglio di sé come uomo squadra, il momento della fine fosse arrivato in maniera così improvvisa?

Atto III: Il Ritorno dello Jedi

Qualcuno a Boston non ne era così convinto, o almeno, pensava che valesse la pena provare a riportarlo a casa. La prima operazione da GM di Brad Stevens è stata proprio quella di riportare Horford a Boston in cambio di Kemba Walker, di fatto scaricando un giocatore con cui non era mai nato un vero feeling.

La trade inizialmente poteva sembrare un modo per risparmiare una ventina di milioni in due anni e acquisire flessibilità. Infatti, solo metà del contratto di Horford per la prossima stagione è garantito. Inoltre si è riportata a Boston una faccia amica, che sembra felice di tornare a casa.

Certi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano

Un’altra considerazione positiva era il fatto che Horford potesse servire come mentore per i giovani e potesse tornare ad essere il collante della squadra come era stato tra il 2016 e il 2019.

Al di là delle più rosee aspettative dei tifosi, invece, anche in campo sta facendo la differenza. Pur non sforando quasi mai la soglia dei 20 punti a partita, Horford sta viaggiando intorno alla doppia doppia di media (13.5 punti e 9.4 rimbalzi in 29 minuti). Il tutto condito da giocate di autorità come quella nel video qua sotto.

Gran parte del suo contributo in questa prima parte di stagione è nella fase difensiva – è secondo in tutta la lega per stoppate (2.6 per partita). Inoltre, come riporta il seguente tweet, con Horford in campo il Defensive Rating della squadra è il secondo migliore della lega (97.1), mentre lo stesso dato scende al 28° posto quando il centro siede in panchina.

La stagione dei Celtics è partita in maniera altalenante (4-6 dopo le prime 10 partite) e, anche tenendo conto di queste statistiche, sarebbe potuta essere peggio senza l’apporto del numero 42.

Il tempo non lo inganni

Il rischio è che un allenatore esordiente come Udoka lo sprema troppo proprio a causa del suo contributo alla squadra. Anche se sembra star vivendo una seconda giovinezza, ha comunque 35 anni e l’ideale sarebbe utilizzarlo principalmente come guida del team. Nelle ultime 3 partite Boston sembra sulla buona strada per migliorare il gioco collettivo, cosa importantissima se si vuole puntare a risultati importanti.

Se la squadra gira, meno responsabilità ricadono sulle spalle del singolo Horford, che può così dare il meglio di sé con la sua leadership silenziosa e quelle piccole giocate che passano inosservate ma sono indispensabili per la squadra. Giocate che sono state il suo marchio di fabbrica nell’arco della carriera.

I Celtics sono la squadra di Brown e di Tatum, pochi dubbi a riguardo, sia per il talento, sia per la giovane età. Ma spesso il talento da solo produce più highlight reels che risultati concreti. Ed è qui che l’esperienza e la conoscenza del gioco del veterano si devono far sentire.

 

Giulia Picciau
1988. Sport invernali, montanara mancata, appassionata di basket, calcio e moto

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