Ciclismo

Ode a Pogacar o a quella voglia di scappare via

0

Ieri pomeriggio abbiamo assistito all’ennesima corsa che ti travolge nell’attesa, ti cattura nello svolgimento e ti lascia, una volta conclusa, con un senso di stupore e vigore che si fonde con la meraviglia. Esageriamo? Se avete seguito il Giro delle Fiandre dall’inizio alla fine siamo sicuri che sarete d’accordo con noi. Se non l’avete fatto, beh… Recuperatelo perché ne vale la pena.

Non esiste tifo, se non quello per il ciclismo stesso, che possa ostacolare l’attrazione verso quanto ha realizzato Tadej Pogacar sul pavé fiammingo. In una terra di “miniere, cimiteri, pittori. E poi: biciclette”, come la definiva Gianni Mura, Tadej si è laureato nell’università di questo sport. Così è chiamata La Ronde e in effetti somiglia davvero a un percorso di formazione. In un viaggio lungo 273 chilometri, i primi 150 sono dedicati a far prendere confidenza con l’atmosfera, il clima, le pietre del pavé, gli avversari che ti guardano con aria di sfida. Insomma, l’abc. Nella seconda metà le cose cambiano: il livello di difficoltà si alza e il clima diventa un perfido nemico, le pietre spine che ti pungono e ti tormentano, gli avversari pescatori affamati pronti a tenderti l’amo. Il finale, negli ultimi anni caratterizzato dalla letale accoppiata Oude Kwaremont-Paterberg, moltiplica tutto ciò e ti catapulta in un altro mondo. Quello del dentro o fuori, quello brutale per alcuni, paradisiaco per pochissimi eletti. “Avevo chiesto a Dio: ti prego, dammi la forza di resistere. Poi mi sono vergognato, non si prega per queste cose”, raccontò Michele Bartoli dopo la vittoria del Fiandre 1996, quando ancora c’erano Kapelmuur e Bosberg a concludere la corsa.

Un finale, quello di ieri, fatto di sofferenza per tutti, tranne per un solo corridore. Quel Pogacar che negli ultimi chilometri di pianura in solitaria verso il traguardo di Oudenaarde si sarà sentito volare leggero. La fatica anestetizzata, la mente vuota e le gambe che girano sospinte dalle urla della folla. Una sensazione che si prova solamente quando si vince in solitaria una grande corsa. Poi si alzano le braccia al cielo e il perenne senso d’insoddisfazione che, segretamente, ingombra la mente di ogni grande atleta scompare di colpo. “Potrei ritirarmi anche adesso”, ha dichiarato, infatti, Pogacar sulle ali dell’entusiasmo di una vittoria memorabile.


Il vero momento “Fuorigiri”, per come lo intendiamo noi (fate un ripasso qui), è andato in scena durante il secondo passaggio sull’Oude Kwaremont. Manca tantissimo al traguardo, ma in testa alla gara ci sono degli attaccanti di alto valore, arrivati a guadagnare in pochi chilometri tre minuti di vantaggio. Si giunge a pensare ad una corsa già chiusa, ma ecco che a riaprirla ci pensano proprio loro: Pogacar e quella sua voglia, insaziabile, di scappare via. Saluta gli altri due compagni di merende, Wout van Aert e Mathieu van der Poel, e si incammina per la sua strada. Non guadagna più di una ventina di metri: la logica dice che si rialza e li aspetta. Lui, infatti, si volta spesso, ma continua a tirar dritto, a spingere sui pedali come se il traguardo fosse lì, a pochi metri di distanza. Sfida e provoca gli altri due colleghi: lo manderanno a prendere dal bracconiere Cristophe Laporte. Tornerà al tavolo della merenda collettiva, ancora per poco.

La merenda, quella vera del dopocorsa, Pogacar, tornando con i piedi per terra, l’ha fatta con un cartoccio di patatine fritte ricoperte di ketchup. Qualcuno addirittura ieri ne faceva uno studio nutrizionistico. Ma farà bene? Cosa non scatena Pogacar… Il re, più umano e alieno allo stesso tempo, del ciclismo contemporaneo.


Fuorigiri #001 – Primo colpo di pedale 


Immagine in evidenza: © F. Faugère/L’Équipe, Twitter

VS su Telegram

Marco D'Onorio
“Lo sport avrà tanti difetti, ma a differenza della vita nello sport non basta sembrare, bisogna essere" (G. Mura). Fondatore di Vita Sportiva.

Comments

Comments are closed.

Login/Sign up