C’è chi nella vita combatte un solo round. George Foreman ne ha vissuti cento. Alcuni sul ring, altri nella mente, altri ancora nel cuore. Ogni volta che sembrava sconfitto, sorprendeva. Ogni volta che sembrava finita, ricominciava. George Foreman non è stato solo un pugile. È stato un uomo intero. Contraddittorio, imprevedibile, straordinariamente umano.
All’inizio degli anni ’70, il suo nome era sinonimo di potenza. Alto un metro e novanta, braccia come tronchi, un gancio che poteva abbattere un muro. Foreman non combatteva: travolgeva. Quando nel 1973 strappò il titolo mondiale a Joe Frazier, lo fece in meno di due round, con una brutalità che lasciò il pubblico senza fiato. Due anni dopo, era ancora l’uomo da battere. Ma il destino gli aveva preparato una lezione sotto forma di leggenda: Muhammad Ali. Kinshasa, Zaire. 30 ottobre 1974. Il match passato alla storia come The Rumble in the Jungle. Foreman era il favorito assoluto, Ali il poeta del ring, sottovalutato ma mai domo. Nessuno immaginava che avrebbe potuto resistere alla furia del campione. Invece, Ali fece qualcosa di rivoluzionario: non combatté, incassò. Si fece colpire. Lo stancò. Poi, all’ottavo round, lo colpì con una combinazione veloce e letale. Foreman cadde. E il mondo cambiò.
Quella sconfitta non fu solo sportiva. Fu esistenziale. George si perse. Si allontanò dal ring, da se stesso, da tutto. Nel 1977, dopo una sconfitta contro Jimmy Young, accadde qualcosa che ancora oggi divide chi ascolta: un’esperienza mistica, una visione, una voce. Foreman disse di essere morto per un momento. Di aver visto Dio. Di essere tornato con una missione. Da quel giorno, appese i guantoni e cominciò a predicare. Letteralmente. Nel cuore del Texas, aprì una chiesa. Predicava ogni domenica, parlava agli emarginati, aiutava i ragazzi a non finire nelle strade. Aveva poco, ma dava tutto. “Dio mi ha salvato,” diceva, “ora voglio salvare gli altri.” Non era il classico ex atleta in cerca di gloria. Non dava interviste, non cercava applausi. Era un uomo in cammino, silenzioso, convinto, trasformato.
Eppure, nel silenzio della fede, qualcosa continuava a battere dentro di lui. Non era nostalgia, era una sfida lasciata a metà. Nel 1987, contro ogni pronostico e con venti chili in più, George Foreman tornò sul ring. Ma non era più il mostro che incuteva terrore. Era un uomo sorridente, pacato, quasi paterno. I giornalisti ridevano. I fan erano scettici. Ma lui no. Lui credeva. E si allenava. Ogni giorno. Senza rabbia, senza pressione. Solo con fede. Il tempo gli diede ragione. In pochi anni tornò ai vertici. E nel 1994, a Las Vegas, accadde l’impensabile. A 45 anni, un’età in cui i pugili sono da tempo in pensione, Foreman batté Michael Moorer e si riprese il titolo mondiale. Vent’anni dopo averlo perso. Nessuno ci credeva, tranne lui. Indossò gli stessi pantaloncini di quando aveva perso con Ali. Come a dire: il passato si può riscrivere. Basta non avere paura.
Ma questa volta non c’erano ruggiti. C’erano abbracci. C’era una calma nuova nei suoi occhi. “Non ho vinto per me,” disse. “Ho vinto per tutti quelli che hanno sentito di essere finiti.” Era diventato l’eroe degli ultimi, dei dimenticati, di chi si alza ogni mattina e prova ancora una volta.
Poi arrivò il grill. Sì, proprio quel piccolo elettrodomestico da cucina che portava il suo nome. All’inizio sembrava una trovata commerciale. Poi divenne un cult. Milioni di pezzi venduti, intere generazioni cresciute cucinando hamburger “alla George”. In un mondo dove tanti campioni si perdono, lui aveva trovato un altro modo per entrare nelle case, e restarci. Non con i pugni, ma con il sorriso.
Nel frattempo, ha cresciuto dieci figli, molti dei quali chiamati, ironicamente, George. Non per ego, ma per ricordare loro, ogni giorno, che si può cadere e ricominciare. “Il mio nome è un promemoria,” diceva. “Se ce l’ho fatta io, potete farcela anche voi.”
Oggi George Foreman non c’è più. Ma non se ne va davvero. Resta in ogni palestra dove un ragazzo si allena da solo, contro tutto. Rimane in ogni predicatore che ha scelto la fede al posto della vendetta. Viene portato a galla in ogni padre che sbaglia e poi cambia. In ogni uomo che, dopo una sconfitta, trova il coraggio di sorridere. George Foreman è stato un pugile, sì. Ma anche un pastore, un padre, un simbolo. Due vite. Una sola anima. Una sola, grande, lezione: non siamo quello che eravamo. Siamo quello che scegliamo di diventare.
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