Articolo originale di Kate Wagner
Il principale favorito alla vigilia, Tadej Pogačar, delle Strade Bianche ha avvertito i suoi rivali esattamente su dove avrebbe attaccato. Ma non sono stati in grado di fermarlo in nessun modo.
Prima di iniziare a scrivere, mi sono chiesta se avesse senso narrare un evento in cui una cosa di così grande conseguenza è avvenuta.
Potreste dire, sì, molte cose di grande rilevanza accadono. I commentatori tendono a concentrarsi su di esse, cercando sottotrame più intricate, per cercare di dare una narrazione più coinvolgente. Anche quando il gruppo sembra poco reattivo. È il loro compito intrattenere, generare eccitazione anche quando il gruppo appare inerte.
Non so esattamente perché, ma non ho più la pazienza per questo tipo di narrazione. Mi sono stancata di insistere sul fatto che sta per accadere qualcosa quando non è così. Forse è perché a volte c’è veramente una sottotrama nella corsa – una lotta straordinaria da parte di un giovane debuttante, un ultimo attacco eroico ma vanificato da parte di una stella che sta per ritirarsi, uno sforzo concertato da parte della fuga, ad esempio – e sostenere che la normale incapacità, spesso ripetuta, di un gruppo di inseguitori di tenere il passo di un forte corridore davanti sia equivalente a questi tipi di narrazioni è una falsa equivalenza. Forse non mi entusiasma più come prima e non sento più il bisogno di essere evangelizzata al riguardo.
Nell’edizione 2024 delle Strade Bianche, una cosa è accaduta: Tadej Pogacar, come previsto da lui stesso in un’intervista pre-gara, ha attaccato sul tratto di Monte Sante Marie (il più difficile) a 80 chilometri dal traguardo. E ha portato a termine l’attacco, vincendo.
Embed from Getty ImagesToms Skujins della Lidl-Trek, beniamino del pubblico e uomo certamente degno d’onore, è finito secondo in quella che può essere descritta unicamente come una lunga giornata fuori. Si è imposto leggermente sul giovane esuberante Maxim Van Gils della Lotto Dstny, che è finito terzo dopo uno dei chasses patates più senza speranza di tutti i tempi. Infatti dopo l’attacco iniziale di Pogačar, si è rialzato e fatto raggiungere dal gruppo inseguitore, per poi mettere in atti la mossa decisiva per il podio a 40 km dall’arrivo.
Nel ciclismo, gran parte della discussione ruota attorno a quale tattica ha funzionato e quale no per una determinata gara. In questo caso, non c’è davvero alcuna tattica di cui parlare. Il semplice fatto che nessuno sia riuscito ad andare con Pogačar a 80 chilometri dal traguardo è stato significativo. Nessuno. C’è stata una profonda indecisione (in orginale futility) nei dieci chilometri successivi all’attacco, durante i quali il distacco tra il leader solitario della corsa si è ampliato di minuto in minuto. Il divario accumulatosi dall’attacco è diventato rapidamente, come abbiamo visto tutti, insormontabile. Pogačar non ha solo creato un divario, ha fatto esplodere un abisso (in originale “he dynamited a chasm“).
Nathan van Hooydonck, al suo debutto come commentatore televisivo, ha esposto essenzialmente lo stesso concetto. Per parafrasare: dato che tutti sapevano che Pogacar avrebbe attaccato, avrebbero dovuto stargli alle calcagna tutto il tempo. In un mondo ideale, avrebbero dovuto inviare degli attaccanti credibili in avanscoperta e accendere la miccia fin da subito, costringendo Pogacar a tornare indietro. Ma ciò non è successo. Non lo chiamerei fallimento tattico, “sindrome del secondo gruppo“, o qualsiasi altro nome. Quello che ho visto è stata una resa abietta.
Potrebbe essere che questa gara fosse stata persa prima ancora che le telecamere iniziassero a riprendere, che corridori come Matej Mohoric o Christophe Laporte o il campione uscente Tom Pidcock, capaci di compiere azioni decisive nei momenti cruciali, fossero già stanchi a causa della pioggia e della grandine, delle strade bianche, della durezza della corsa imposta dalla UAE Team Emirates che ha eliminato ogni possibilità di una fuga a lungo termine.
Si potrebbe anche argomentare che la dinamica della gara sarebbe stata diversa se Mathieu van der Poel o Wout van Aert fossero stati presenti. Ma non avrei mai immaginato che un attacco solitario così audace da così lontano potesse avere successo.
In un certo senso, credo nella hubris. Mentre la corsa era, a mia insaputa, finita a 80 km dal traguardo, ho trascorso novanta minuti interi aspettandomi che Pogačar crollasse o forasse, o entrambi. Invece, ha continuato sfidando ogni aspettativa, regalando anche un sorriso alla fine. Non c’è stata alcuna punizione per la sua audacia.
Non ha nemmeno lottato come fece allo scorso Il Lombardia, dove combatteva i suoi limiti fisici. Una lotta degna di essere vista anche quando il divario sembrava tale da poter essere chiuso dagli inseguitori. Qui, Pogačar è rimasto completamente solo – tra i cipressi e il cielo grigio e la certezza assoluta del suo compito e della sua capacità di portarlo a termine. Così ha trasformato la cosiddetta “sesta monumento” in un altro giorno in Italia, un altro giorno in bicicletta, in qualcosa di completamente ordinario.
Eppure, ogni tanto, mi colpisce quanto possa sembrare solo Pogačar. È, in tutti i sensi, una persona socievole, divertente, a volte imbarazzante, tranquilla con gli altri. L’ho visto circondato da compagni di squadra, amici e familiari; persino i suoi rivali faticano a odiarlo.
Quando Pogacar è da solo, che sia in bicicletta o semplicemente in attesa da qualche parte, può apparire completamente assorto nei suoi pensieri, bloccato in una profonda e impenetrabile interiorità. Un uomo che sembra così accessibile diventa, a causa della sua semplice solitudine, irraggiungibile.
La foto di Pauline Ballet che lo ritrae dietro Vingegaard al podio degli autografi al Tour rappresenta perfettamente questo concetto: Pogacar, immerso nei suoi pensieri, il suo sguardo catturato dall’obiettivo della fotocamera, ci lascia fuori da quel suo mondo interiore. Sulle strade bianche, in testa alla corsa per un lungo periodo di tempo, il gruppo si è sentito altrettanto estraniato, probabilmente pensando che fosse in una corsa a parte.
La cosa più incredibile riguardo alla fuga di 80 km non è solo che Pogačar l’abbia effettuata, ma che niente sia riuscito a fermarlo.
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