Camminando per una delle vie principali di Herentals, in Belgio, e dirigendosi verso la Grote Markt, la piazza principale della città, si incontra una statua di bronzo alta tre metri. Raffigura un uomo dal volto arcigno, quello di Rik Van Looy. Realizzata dall’artista Philip Aguirre nel 2017, è un’opera dedicata al secondo corridore più vincente della storia, scomparso ieri a novant’anni. Dietro quei 271 successi in diciassette stagioni da professionista, dal 1953 al 1970, c’è un atleta che non ha iniziato a pedalare con le stimmate del campione, ma si è costruito col tempo. Il suo numero di affermazioni è stato superato solo dal connazionale Eddy Merckx, giunto a quota 445, contando per entrambi anche i criterium, che in quegli anni avevano un valore diverso rispetto a quello di oggi.
Soprannominato l’imperatore di Herentals, la sua località di residenza dopo essere nato a Grobbendonk, il corridore fiammingo è stato l’unico a vincere tutte le maggiori classiche (a Merckx è mancata la Parigi-Tours), nonché il primo a conquistare le cinque monumento. Riuscirono a eguagliarlo solo Merckx, ancora, e Roger De Vlaeminck. Sinonimo di grande versatilità, per colui che spesso viene ricordato innanzitutto come un fenomenale velocista. Dietro quest’immagine c’è il Van Looy innovatore: il primo, e questa volta non c’entra il palmarès, anche se ne ha ovviamente risentito, a farsi lanciare la volata, a costruire il cosiddetto treno, perfezionato in seguito da Giuseppe Saronni e Mario Cipollini. Negli ultimi chilometri irrompevano in fila indiana le maglie scarlatte della Faema in testa al gruppo, con Van Looy che era solito lanciare lo sprint da lontano, anche a mille metri dal traguardo, sfiancando gli avversari. Un’azione che aveva imparato presto, fin da quando, bambino, era in ritardo nelle consegne di distribuzione del latte nel suo paese, in sella a una bicicletta grande e pesante. Nel percorso di crescita, seppur abbia vinto tanto da dilettante (circa sessanta corse in due anni), l’approccio al professionismo non è stato così roseo. Nel libro «Cycling Heroes: The Golden Years» di Les Woodland, Van Looy ha raccontato che la più grande lezione l’aveva presa al primo Giro d’Italia, dopo che il suo manager gliel’aveva presentato come una corsa in gran parte pianeggiante, con bel tempo e il gruppo a concludere ogni tappa intatto: l’ideale per un velocista. «Mi trovai catapultato in un altro mondo – ricorda Rik – Ogni giorno finivo un po’ più indietro rispetto all’ultimo gruppetto. Alla nona tappa ho tagliato il traguardo quando i giudici se ne erano andati e avevano iniziato a smontare le tribune».
Da lì iniziò ad allenarsi e gareggiare con un altro piglio, quello del campione. E così guadagnò anche gradi, fino a raggiungere lo status di grande leader per il quale viene sempre ricordato. «Ero un leader nato. È la mia natura, ma non potevo semplicemente arrivare e pretendere di comandare. Mi ci sono voluti due anni per dimostrare che potevo farcela». Dopo le prime tre stagioni trascorse in quattro squadre diverse e le prime vittorie di peso, nel 1956 una formazione italiana scelse di mettere una schiera di corridori interamente a suo servizio. Anzi, a scegliere fu proprio Van Looy. «Quando sono arrivato alla Faema ho deciso io i gregari da ingaggiare, in base alle loro qualità e ai risultati ottenuti. Nelle classiche tutti dovevano correre per me. Nelle altre gare si correva per chi si trovava nello stato di forma e posizione migliore. Credo nell’avere un uomo di punta in una squadra. L’ha insegnato Fausto Coppi e ne venni a conoscenza mentre correvo per la Bianchi-Pirelli nel 1954». Alla gerarchia ben definita, Van Looy associava un temperamento autoritario, quasi mai ironico, dalla faccia scura tesa a intimorire gli avversari. L’imperatore Rik II, dopo Rik I, Van Steenbergen, finiva per diventare antipatico ai più, ma a lui non interessava: era se stesso e a parlare erano i risultati. I suoi compagni non ne hanno mai fatto un ritratto negativo: all’enorme esigenza e alla severità, affiancava la riconoscenza e la coerenza nella parola data. Si faceva tutto ciò che Van Looy richiedeva, compreso l’andare a prendere le birre a metà gara. Gregari a cui appartiene un pezzo di quelle tre Parigi-Roubaix, due Giri delle Fiandre, una Milano-Sanremo, un Giro di Lombardia, una Liegi-Bastogne-Liegi, due Mondiali, cinque tappe del Tour de France, dodici tappe del Giro d’Italia, diciotto tappe della Vuelta di Spagna. Ma non c’era solo la strada a scandire i successi di Van Looy: su pista conquistò ben dodici Sei Giorni. Le scarse abilità in salita e a cronometro ne limitarono le possibilità di vittoria in un grande Giro, ma di certo non impossibile, visto che ci si avvicinò molto. Lo spiegò bene Jacques Anquetil, che una volta disse: «Il mio principale rivale al Tour de France non era Baldini, né Goul, né Poulidor. Era Van Looy. Dovevo eguagliarlo nelle tappe di pianura e anche in montagna, perché se non lo facevo si presentava alle cronometro con quindici minuti di vantaggio». Era spesso in fuga, Van Looy, per difendersi poi sulle montagne, dove riuscì comunque a lasciare il segno. Non nelle prove contro il tempo, che non facevano proprio per lui, abituato a dare tutto ignorando la posizione in bici. Nel ricchissimo palmarès restano il quarto posto al Giro del 1959, il terzo posto alla Vuelta dello stesso anno e il decimo al Tour del 1963. In quella Grande Boucle stava lottando addirittura per la vittoria, ma nella tappa da Pau a Bagnères-sur-Bigorre, con la scalata del Tourmalet e dell’Aubisque, perse dieci minuti. Lo stesso margine che Anquetil aveva su di lui a Parigi.
Rik Van Looy in azione al Tour de France 1963
Van Looy che racconta di essere stato doppiato cinque volte alla sua prima gara giovanile ad Herentals, giurando che non avrebbe mai più partecipato a una corsa, vestì poi due volte la maglia più prestigiosa, quella iridata. Ai successi del ’60 e del ’61 stava per aggiungersi quello del ’63, quando nello sprint di Renaix a beffarlo fu proprio un suo compagno di nazionale: Benoni Beheyt. Al suo primo Mondiale, il giovane gregario si rese conto che nel finale Van Looy era molto stanco, al termine di una corsa dura, e così dopo avergli tirato la volata non si rialzò e sul traguardo superò proprio il capitano Rik, secondo. Un tradimento enorme per quest’ultimo, che per ripicca rese difficile la carriera di Beheyt: la sua squadra lo marcava, lui minacciava di non presentarsi a quelle kermesse in cui fosse stato invitato anche il “rivale”, con gli organizzatori costretti così a lasciarlo a casa. Un ostruzionismo in nome delle leggi non scritte del gruppo. Oggi Van Looy, con il senno di poi, perdona: «Beheyt aveva accettato di correre per me, ma non si può incolpare un corridore che vede un’opportunità del genere così a portata di mano e poi allunga la mano e la coglie. Ma resta ancora un ricordo doloroso e una grande delusione. Ero convinto che avrei vinto».
Da quella sconfitta subita da chi doveva aiutarlo, iniziò il tramonto di Van Looy, che lasciò il ciclismo nel 1970. E lo lasciò davvero visto che non ha più frequentato l’ambiente professionistico, fondando una scuola giovanile di ciclismo, la Vlaamse Wielerschool, concentrata sull’iniziazione a questo sport e all’attività invernale. Tanto invadente e influente è stata la sua presenza nel mondo delle due ruote da corridore, da imperatore, tanto appartato e fuori dalla luce dei riflettori ha vissuto dopo il ritiro.
Immagine in evidenza: © Paris-Roubaix, X
Comments