A ruota libera

L’eredità giornalistica del maestro Gianni Mura

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Gianni Mura non era soltanto un giornalista sportivo, sarebbe fin troppo riduttivo, poco elegante attribuirgli tale dicitura senza aggiungere altro. Non era neanche solo l’erede di un altro monumento come Gianni Brera, pur essendo accomunati dalla stessa visione dello sport in generale. Gianni Mura è stato, è e sarà per tutti uno dei più grandi giornalisti mai esistiti in Italia, un eccelso maestro di un mestiere d’altri tempi, un curioso e raffinato poeta dello sport. Un narratore rimasto sempre timido, riservato, nonostante fosse ben chiara – in tutti, nessuno escluso – la concezione di ritrovarsi davanti uno tra i più bravi di sempre. E lui non lo dava mai a vedere.

È stato un maestro a tutti gli effetti, le sue passioni erano calcio e ciclismo, ma anche l’enogastronomia. Era l’esempio lampante dell’antidivo, alla lingua parlata preferiva che fosse la penna ad esorcizzare forse la paura di sbagliare, di commettere un errore come altri. Mura non raccontava storie: dava loro vita, le rendeva appassionati e vere. Lo faceva con la sua mitica Olivetti Lettera 32, celeberrima macchina da scrivere, finanche quando venne circondato da colleghi armati di pc e, in ultimo, di smartphone e tablet. Mura non voleva essere “quello diverso”, l’anarchico o l’alternativo: semplicemente, apparteneva a una generazione che ha fatto sognare, alla quale tutti noi dovremmo fare riferimento, quando vogliamo intraprendere questo mestiere.

Il fascino dei suoi racconti è nelle cronache del ciclismo, in particolar modo il Tour de France. Dalle fughe solitarie di Ocana alle vittorie di Anquetil, dalle morti di Simpson e Casartelli all’epopea di Armstrong, malattia e rinascita annessa al di là di ciò che venne fuori a posteriori. Il suo ricorso al romanticismo e all’epica, alla profondità dei suoi racconti intrinsechi di uomini e strade, protagonisti del pedale e sconfinati paesaggi, contornati dal sapore dei piatti tipici dei luoghi attraversati dalla Grande Boucle, hanno segnato un’epoca irripetibile.

La penna del maestro Mura recitava ogni volta una storia fantastica più bella della precedente. E non poteva mancare Marco Pantani, il Pirata, Pantadattilo come egli lo soprannominava affettuosamente, parlandone come se fosse un animale preistorico estinto. Gli dedicò una poesia, lui, Gianni Mura, al quale sarebbe piaciuto fare il medico, oppure il cantautore. Ma cosa avremmo perso se non avesse coltivato la passione per il suo lavoro? A La Gazzetta dello Sport entrò come praticante temporaneo, vi rimase per otto anni per poi diventare una delle più importanti firme de La Repubblica.

Gianni Mura, dedica. La Fiamma Rossa

Gianni Mura, dedica. La Fiamma Rossa.

È proprio in occasione del suo approdo alla Rosea che viene fuori uno straordinario aneddoto del fare giornalismo autentico e a tratti desueto. Gli dissero chiaro e tondo: “Ah, naturalmente qui dento non si tifa per nessuno“. E così Mura fu “costretto” a mettere da parte la sua fede calcistiche a tinte rossonere. Quello ancora oggi è considerato uno dei suoi più grandi insegnamenti. Perché il cantore dello sport fu un fervente sostenitore di quella cultura sportiva oramai andata perduta, discioltasi come neve al sole. E di cultura sportiva, quale giramondo conoscitore delle realtà più disparate, ne aveva da vendere. Brera invece per nascondere le probabili simpatie nerazzurre, quasi si spacciava per genoano, appartenente quindi alla schiera di tifosi di squadre innocue, non una delle grandi.

I suoi Sette giorni di cattivi pensieri – sua ultima rubrica curata prima di lasciarci inaspettatamente – rappresentano la bellezza di un giornalismo acuto e raffinato, fatto di opinioni e questione morale, pur trattandosi di dover fare delle scelte ma sempre con attiva partecipazione, nella quale devono prevalere la verità e la sostanza, altrimenti sarebbe soltanto materiale da scartare, in altre parole fuffa.

Nel suo ultimo intervento domenicale, non poteva mancare l’emergenza Coronavirus e il comportamento assai discutibile di taluni irresponsabili. Con la sua spigliatezza d’animo e quell’inconfondibile stile di un tempo passato, Mura sentenziava così: “Se un incosciente non recupera un minimo di coscienza nemmeno in situazioni come quella che stiamo attraversando è un imbecille pericoloso“. Non aveva affatto torto.

Personalmente, ho un ricordo preciso di un incontro con Gianni Mura. A una presentazione della sua opera La Fiamma Rossa, in una frizzante serata di un ormai lontano settembre 2008, il ritorno alle corse di Lance Armstrong fu l’occasione per creare una delle più appaganti conversazioni sul ciclismo. Si concluse con un pronostico sul Tour de France 2009, al vincitore l’onore della soddisfazione, al vinto quello di offrirgli un calice di vino. Il Maestro scelse il texano, il sottoscritto Contador. Quel calice è solo rimandato.

Ti sia lieve la terra, Maestro.

Andrea Cardinale

La Redazione
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