Calcio

Everybody hates Leonardo Bonucci

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In questi anni su Leonardo Bonucci si è detto tutto ed il contrario di tutto, talvolta andando oltre l’aspetto tecnico in maniera più o meno discreta. Proprio per questo motivo è bene soffermarsi esclusivamente sull’aspetto psicologico e tecnico del calciatore, pur essendo consapevoli dell’influenza della sua sfera privata.

Il centrale della Juventus e della Nazionale è stato per diversi mesi al centro di polemiche per colpa del suo passaggio improvviso dai bianconeri al Milan e successivamente per le sue prestazioni deludenti in maglia rossonera, che hanno poi trovato continuità nei primi mesi del suo ritorno alla Continassa.

In quest’ultima circostanza, Bonucci ha definito l’ambiente juventino come casa sua, mettendosi alle spalle un addio “dettato dalla rabbia del momento”. Ebbene, la finale di Champions League persa a Cardiff contro il Real Madrid ha rappresentato per Leo l’esatto momento, quello che svolta una carriera, quello che rappresenta al meglio la teoria delle sliding doors, che non troverà mai terreno più fertile della carriera di un atleta. I rumors su una rissa che lo avrebbero visto protagonista nell’intervallo della finale sono stati la scintilla che ha portato il difensore a cambiare aria, sommati al rapporto incrinato con Massimiliano Allegri, che dopo un litigio in campo gli fece seguire dalla tribuna l’ottavo di finale contro il Porto.

Non è affatto semplice entrare nella testa di un calciatore e soprattutto di un uomo che decide di uscire dalla comfort zone di titolare inamovibile e bandiera della squadra che più di tutte ha creduto in lui, per approdare ad una rivale storica, seppur lontana dai suoi anni migliori. Bonucci in sede di presentazione parlò di attributi, di scelta fatta con consapevolezza e di esperienza a servizio della squadra, ma tutto è venuto ad impattare inesorabilmente con il verdetto del campo, con una fascia da capitano donatagli dalla società – e non dai compagni – e con una delle annate più nere della storia del Milan.

L’involuzione del Leonardo 2.0, quello che non sentiva più il bisogno di legare la sua carriera ad una sola maglia, che è finito con il porre se stesso davanti al bene comune, è stata e per certi versi continua ad essere sotto gli occhi di tutti. Il primo Bonucci bianconero, guidato da Antonio Conte prima e da Allegri poi, ma soprattutto dai suoi compagni di reparto più esperti, era un calciatore unico nel suo genere. L’intuizione di affidarsi ad una difesa a 3 da parte di Conte nell’anno del primo degli ormai 8 scudetti di fila, ha portato al centrale viterbese un ingente carico di responsabilità in termini di regia – uno come Pirlo a volte deve essere costretto a sopportare la pressione di qualche avversario – che ha saputo gestire al meglio grazie alle sue indiscutibili qualità tecniche e su cui ha costruito successivamente una solidità non solo a livello di impostazione, ma anche di copertura. Nel calcio moderno si cercano sempre di più difensori dai piedi buoni, vedesi Sergio Ramos Van Dijk, e Bonucci ha rappresentato per almeno 3 o 4 anni l’eccellenza assoluta in materia, riuscendo a conquistare elogi anche quando la linea è diventata a 4, con l’arrivo di Allegri sulla panchina della Juve.

Complice anche l’idea radicata che la maggior parte dei tifosi ha della Juventus, il ritorno di Bonucci è stato totalmente in salita, anche e soprattutto per quanto riguarda il rapporto con la gente bianconera, che fino a pochi anni prima lo avrebbe difeso a spada tratta in qualsiasi circostanza e ciò non ha potuto fare a meno di ripercuotersi sulle sue prestazioni. Una delle squadre più forti d’Europa non ha potuto comunque fare a meno di dimostrare lacune dettate spesso (ma non esclusivamente) da indecisioni del numero 19, a volte troppo leggero in marcatura – esempi perfetti i gol presi da Stepinski, Inglese Zapata in campionato – e spesso troppo spavaldo in fase di possesso palla – come nel caso dei palloni regalati a Mertens Piatek nelle due sfide casalinghe con Napoli e Milan.

Capitolo a parte meritano le dichiarazioni di Leonardo davanti ai microfoni: nei primi anni in bianconero sotto la guida di Conte si è dimostrato condottiero quando le cose non andavano per il verso giusto e pungente se si trattava di rispondere ad accuse, una su tutte quella sul suo coinvolgimento nello scandalo scommesse. Con il tempo, anche qui si nota un cambiamento repentino, quasi innaturale, che fa capolino nella massima espressione dell’ego rispetto alla squadra. Ciò lo porta a rischiare di risultare fuori luogo, come quando a caldo ha parlato di colpe divise equamente tra Kean e alcuni tifosi del Cagliari per gli insulti razziali all’attaccante juventino. Attenzione, nessuno sostiene che la pensi davvero così, a caldo e dopo un match tirato ci può stare: quello che balza agli occhi è però la spasmodica volontà di ergersi al di sopra delle parti, quasi per volersi far riconoscere al comando da chi invece lo critica.

Oggi, dunque, parliamo di un difensore che, pur mantenendo lo stesso fuoco negli occhi, non è più riuscito a ripetersi a quei livelli cui ci aveva abituato: è come se fosse tornato ai primi anni della sua carriera, con quell’incertezza tipica di chi conosce i propri mezzi ma non è abbastanza forte mentalmente per metterli a disposizione della causa. Se l’esperienza è parente stretta della tecnica e della tattica, non si può avere la stessa certezza se si parla di tenuta mentale. Leonardo si è dimostrato fragile, si è esposto come leader assoluto, ha fatto dietrofront mancando inconsciamente di rispetto alla storia di un club che lo ha accolto, seppur per un solo anno, ed ora a stagione praticamente terminata si trova ancora a  rincorrere non un posto da titolare – quello ce l’ha già – ma una cosa che forse non riotterrà mai pienamente: l’affetto della gente e la stima di chi oggi lo odia, ma solamente perché lo ha amato troppo.

 

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