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Marta, la donna che ha cambiato il calcio

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«Piangere all’inizio per sorridere alla fine». È quello che è successo a moltissime ragazze che hanno realizzato il sogno di diventare una calciatrice e sono le parole con cui Marta Vieira da Silva ha concluso il suo intervento al termine di Brasile-Francia, ottavo di finale del Mondiale 2019. Doveva essere solo una rapida intervista post-partita, ne è uscito un discorso motivazionale da pelle d’oca, dopo che la propria nazionale era stata eliminata precocemente dalle padrone di casa. Al suo posto qualcun’altra avrebbe liquidato l’intervistatrice con poche parole, in preda alla delusione.

Lei, invece, è Marta e ogni sua azione, fuori e dentro dal campo, ha un peso enorme. È diventata negli anni, dribbling dopo dribbling, parola dopo parola, rete dopo rete, una figura di riferimento totale nel calcio, nello sport, nella vita. E poi, l’origine etimologica del suo nome parla chiaro: Marta deriva dall’aramaico e significa “signora”, “padrona”. Lei è la signora, la padrona del calcio, che ha cambiato questo sport come nessuna. E come poche ha pianto, tanto, all’inizio, e sorriso, tantissimo, alla fine.

La storia di Marta, nata sfidando un divieto

La storia di Marta parte da un Paese, il Brasile, in cui fino a tre anni prima della sua nascita nel 1986, il calcio era uno sport vietato alle donne. Non disapprovato, vietato. Ritenuto «incompatibile con le condizioni della natura femminile, dannoso alla salute», nessuna ragazza poteva legalmente inseguire una palla su un campo da gioco. Nel 1983 venne regolarizzato, ma non è certo con la fine di una legge che una pratica vietata viene immediatamente normalizzata nella società.

Marta inizia a tirare calci ad un pallone circondata dai pregiudizi, anche quelli dei suoi stessi fratelli. Dalla sua parte c’era solamente il talento, spropositato, che accecava e spingeva i ragazzini ad ammetterla, a legittimare il fatto che una bambina giocasse con loro. Molti anni dopo, Marta, in una lettera per The Players Tribune, ha raccontato come sua madre venisse rimproverata da tutti per lasciarla giocare a calcio. «Tua figlia è strana», dicevano. Ma lei rispondeva di lasciarla fare. Per Tereza sua figlia si distingueva per la passione e il talento, non perché fosse l’unica ragazza di Dois Riachos a giocare a calcio. Una piccola città nello stato di Alagoas, una delle aree più povere del Brasile, che in quegli anni deteneva sia l’indice di sviluppo umano che il tasso di alfabetizzazione più basso di uno qualsiasi dei ventisei stati del Paese. Marta viveva lì con sua madre, portinaia in un municipio, due fratelli e una sorella. Il padre era andato via di casa quando lei aveva solo un anno. Ecco, quindi, altri ostacoli giganteschi da affrontare, qualsiasi cosa avesse voluto fare nella propria vita.

Nel suo contesto familiare e, ancora prima, economico e sociale l’obiettivo era sopravvivere. E allora solo il talento non basta, serve una determinazione feroce accompagnata da un amore travolgente verso ciò che si fa. Sono gli unici strumenti che Marta ha per combattere con chi non vuole vederla inseguire un pallone, accelerare in modo folgorante verso la porta avversaria, dribblare e calciare con un sinistro micidiale. Passando per una velocità di pensiero straordinaria e una visione di gioco strabiliante, che le permette di vedere spazi che tutti non vedono.

Quell’esclusione che la rese più forte

A dodici anni inizia a scendere in campo con la rappresentativa giovanile del suo comune nativo e successivamente con quella dello stato dell’Alagoas, entrambe composte da soli ragazzi. «Non importava quanti gol segnavo. I commenti, i giudizi meschini e le battute non si fermavano. Le persone borbottavano mentre gli passavo davanti. Sola contro tutti. Come sola ero nel piccolo bagno a lato dello spogliatoio dov’erano i ragazzi, mentre cercavo di infilare la maglia oversize nei pantaloncini da uomo che mi andavano ben oltre le ginocchia». È l’inizio, è il tempo delle lacrime amare e della rabbia verso tutti coloro che pensano che non ci sia posto per le ragazze in campo. «Stavo per partecipare ad una coppa regionale alla quale avevo preso parte già l’anno prima. Ero stata riconosciuta persino tra i migliori del torneo. Ma sembrasse non contare più, quando all’inizio dell’edizione successiva un allenatore di un’altra squadra disse che se i suoi ragazzi avessero dovuto giocare contro di lei, avrebbe ritirato la sua formazione dal torneo. “Questo non è un posto per ragazze”, disse. La mia squadra e gli organizzatori non mi difesero. Fui esclusa dalla coppa, le lacrime mi sgorgavano a fiumi dagli occhi».

Ma la voglia di dimostrare che si sbagliano tutti è più forte. Chi le dice che non può, le dà forza e motivazione. La battaglia per ottenere i suoi diritti e quelli di ogni ragazza è iniziata. Poche settimane dopo quell’esclusione arriva la svolta, Marta ha quattordici anni. Un provino richiesto da uno scout del Vasco da Gama, squadra di Rio de Janeiro che stava creando una formazione femminile, da svolgere e un autobus, pagato da tutti i suoi familiari, da prendere. Quasi tre giorni di viaggio per raggiungere la capitale, la Cidade Maravilhosa, dove inizia a prendere forma un primo sorriso.

Stampato sulla faccia fin dal primo istante, quando vede qualcosa che non aveva mai visto prima: un campo di calcio dove giocano solo ragazze. E allora le innumerevoli difficoltà di vita quotidiana diventano solo un aspetto collaterale. La Confederazione calcistica brasiliana avvia una campionato nazionale femminile e Marta vincerà subito il premio di MVP della competizione Under 19. Ma l’avventura al Vasco terminerà presto, dopo due stagioni, perché la squadra interrompe la sua attività al femminile e la futura regina del calcio brasiliano è costretta a trasferirsi, destinazione Santa Cruz a Recife.

È in Svezia che diventa rainha, regina

È il 2002, Marta ha già debuttato a sedici anni con la nazionale maggiore, che guidò l’anno dopo a suon di gol alla vittoria dei Giochi Panamericani. Nelle due annate con la squadra della capitale dello stato del Pernambuco continua a stupire. È il momento di compiere il salto di qualità definitivo. Per farlo deve lasciare il Brasile e volare in Europa, più precisamente in Svezia, dove l’Umeå IK le ha proposto di giocare per loro. La telefonata direttamente dalla Scandinavia in lingua portoghese sembrerà inizialmente a Marta essere uno scherzo, ma scoprirà presto che è tutto vero e che lì «il calcio giocato dalle donne è diverso… Viene preso sul serio».

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Marta in azione durante la finale olimpica di Atene 2004 contro gli Stati Uniti

Le quattro stagioni all’Umeå la fanno diventare la giocatrice formidabile che tutto il mondo conosce. Un’attaccante da 111 gol in 103 partite e la prima donna brasiliana a giocare da professionista nel Vecchio Continente. Con la squadra svedese ha vinto tutto: una volta l’attuale Women’s Champions League (con altre due finali conquistate), quattro volte di fila il Damallsvenskan (il massimo campionato femminile in Svezia), dove è stata per tre volte la miglior marcatrice, una Coppa di Svezia e quattro volte il premio individuale FIFA di Miglior Giocatrice dell’Anno.

Nel frattempo con il Brasile vive i momenti migliori, vincendo ancora i Giochi Panamericani, ma sfiorando sempre il successo. Succederà nell’intera carriera in nazionale, la cui fine è stata annunciata nel Mondiale in corso dopo l’eliminazione ai gironi. Mai è arrivata la vittoria finale nelle competizioni più importanti: Mondiali e Giochi Olimpici. In quest’ultimi, ad Atene 2004 e Pechino 2008, è argento, come non riuscì ad imporsi con le compagne nell’atto conclusivo dei Mondiali del 2007 in Cina. Dopo aver battuto in semifinale per 4-0 le favorite degli Stati Uniti, grazie anche a una delle migliori partite di sempre giocate da Marta stessa, che firmò una doppietta straordinaria, il Brasile si arrese solo alla Germania. Un’occasione così grande, fino ad oggi, non ricapiterà più alla nazionale verdeoro, che in quell’edizione del 2007 schierava le proprie punte (Marta, Formiga, Cristiane) nella condizione migliore in carriera.

Resterà quindi questa lacuna nel palmarès di Marta. Complice, probabilmente, un gioco, quello del Brasile, fondato sempre sulla forza delle singole. La C.T. svedese Pia Sundhage (prima allenatrice non brasiliana nella storia della nazionale) fu scelta nel 2019, dopo l’eliminazione agli ottavi del Mondiale francese, proprio per innovare il tipo di gioco. Ma nella Coppa del Mondo in corso l’uscita ai gironi, che per il Brasile non avveniva dal 1995, è stata davvero un cattivo segnale.

Marta incanta, ma i club chiudono: «Perché Dio dovrebbe darmi questo talento, se nessuno vuole che giochi?»

Se con la nazionale Marta non è riuscita a raggiungere il massimo risultato, nelle squadre di club ha continuato ad alzare trofei. Nel 2008, da una delle migliori calciatrici al mondo, lascia la nazione scandinava per giocare negli Stati Uniti, alla ricerca di una nuova sfida. Nel Paese a stelle e strisce il movimento femminile ambisce a raggiungere il livello più alto al mondo e Marta vuole diventarne subito la stella più luminosa con la maglia del Los Angeles Sol. È la prima edizione della Women’s Professional Soccer League e l’attaccante brasiliana la inaugura dominando la classifica di miglior marcatrice, vincendo la regular season e arrendendosi solo nella finalissima.

Per metà della stagione successiva va in prestito al Santos, tornando così in Brasile dopo cinque anni e realizzando ben 28 gol in 15 partite. Vince entrambe le competizioni, Copa Libertadores e Copa do Brasil, a cui partecipa. Ma la scelta della breve sosta al Santos avviene in seguito alle difficoltà finanziarie del LA Sol e quando Marta torna negli Stati Uniti il club ha cessato l’attività. Così la calciatrice che ha vinto nel frattempo il suo quinto premio di Miglior Giocatrice dell’Anno, si ritrova senza squadra. Contraddizioni di un movimento che in quegli anni sta ancora gettando a fatica le propria fondamenta e di cui Marta pagherà a lungo le conseguenze. Resta negli USA vestendo la maglia dell’FC Gold Pride e poi, per la stagione brasiliana, torna di nuovo in prestito al Santos. Questa volta conquista lo scudetto nella WPSL, ancora come miglior marcatrice, ma manca il successo in Brasile.

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Marta nel 2009 con la maglia del Los Angeles Sol

Ecco, però, che la sua carriera subisce di nuovo un duro colpo. Lei continua ad incantare in ogni partita che gioca, ma sembra non bastare. L’FC Gold Pride si sbriciola e anche il Santos porre fine all’attività per finanziare dichiaratamente l’acquisto di Neymar nella formazione maschile. Dopo aver firmato il contratto, all’attaccante brasiliano è stato chiesto se si sentisse responsabile per aver posto termine all’esistenza di successo della squadra femminile. Prima che potesse rispondere il presidente del club Luis Álvaro de Oliveira Ribeiro è intervenuto, dicendo: «L’obiettivo del Santos è avere un calcio professionistico che possa durare centinaia di anni. Altre attività collaterali, come la rappresentativa femminile, sono realizzabili quando possibile. Dato che siamo campioni in carica, gli stipendi sono più alti, i giocatori costano di più e dobbiamo riadattarci». Le sensazioni di Marta non vanno molto lontano dall’esclusione da quel torneo giovanile e quella domanda che, come a quattordici anni, torna a rimbombare nella sua testa: «Perché Dio dovrebbe darmi questo talento, se nessuno vuole che giochi?». Il valore attribuito al movimento femminile in Brasile è chiaro e Marta non tornerà più a giocare nel suo Paese fino ad oggi.

Il sogno americano si sgretola per rinascere più forte di prima: è l’alba di una nuova era

Nella stagione 2011-12 il Western New York Flash la accoglie, concludendo a loro spese i tre anni di contratto firmati in precedenza con l’FC Gold Pride. E sarà ancora scudetto, titolo di miglior marcatrice e premio di MVP per il secondo anno di fila. Dalla stagione successiva, però, non è stato solo il suo club a fallire, ma l’intero campionato, costringendola ad abbandonare gli Stati Uniti e tornare in Svezia con la maglia del Tyresö FC. Ha trascorso due anni lì, prima che, nonostante la vittoria del campionato, anche questa squadra cessasse l’attività.

Sei dei suoi nove club, da quando ha esordito, oggi non esistono più. Il fatto che questo possa accadere alla migliore di tutti i tempi è un perfetto esempio della situazione precaria in cui si trovano le donne che giocano a calcio. La battaglia è ancora lunga e negli anni a venire Marta continuerà ad alimentarla, abbreviando il percorso che conduce il movimento ad essere riconosciuto per il suo vero valore, scavalcando la barriera del genere.

Dal 2014 al 2017 guida l’FC Rosengård, dove il peso di una già lunga e nomade carriera, sembra non farsi sentire. In Svezia vince ancora due scudetti, una Coppa e due Supercoppe, prima di tornare negli Stati Uniti con l’Orlando Pride. Il Campionato è ripartito, sotto il nome di National Women’s Soccer League e con basi molto più solide rispetto al passato. Marta, con un salario pari a circa 44.000 euro al mese, diventa la calciatrice più pagata della storia. Manca la vittoria finale, di un Campionato o di una Coppa, i suoi numeri diventano umani e con l’età che avanza ha inizio il lento tramonto della sua carriera. Ma Marta sorride, perché per il movimento femminile è l’alba di una nuova era. Grazie al peso di icone come lei, Alex Morgan, Megan Rapinoe, Alexia Putellas, Sam Kerr, le bambine che cominciano a rincorrere un pallone piangendo meno e con un modello da seguire. A differenza di quella ragazzina che giocava scalza nei cortili di Dois Riachos e non aveva una calciatrice da ammirare. Alla quale, venti anni dopo, Marta scrisse: «Una cosa che scoprirai – che sia in Brasile, o in Svezia, oppure ora, tornando negli Stati Uniti con l’Orlando Pride – è che ogni donna condivide qualcosa: una storia complicata… E un amore per il calcio che continua a guidarla».

Una fonte d’ispirazione

«Grazie per aver realizzato i miei sogni, grazie per non aver rinunciato al calcio, grazie per la tua tenacia, grazie per la tua resilienza, grazie per avermi mostrato determinazione, per avermi fatto sognare e credere che sia possibile. Sei un riferimento». Parole scritte da Kerolin Nicoli, 23 anni, centrocampista del Brasile, in una lettera indirizzata a Marta dopo l’uscita dal Mondiale in corso. È proprio nelle due massime competizioni per nazionali, la Coppa del Mondo e le Olimpiadi, che la nativa di Dois Riachos ha realizzato i primati più iconici e di maggior ispirazione. Ai Giochi di Tokyo nel 2021 è diventata la prima di sempre a segnare almeno un gol in cinque Olimpiadi consecutive. Mentre nel 2019, nella rassegna francese, divenne la miglior marcatrice nella storia dei Mondiali, maschili o femminili (17 gol).

La mancanza del trionfo in una di queste due competizioni la preoccupa più per il movimento della sua nazione, che per il suo palmarès individuale. Un risultato che andrebbe a contribuire all’accettazione delle competizioni femminili in Brasile, alla creazione di un forte campionato professionistico nazionale e all’istituzione di un sistema giovanile stabile. Un risultato a cui Marta non contribuirà più sul campo, dopo l’addio alla nazionale avvenuto, come già ricordato, pochi giorni fa. Durante un Campionato del Mondo, quello in corso, in cui il governo brasiliano ha concesso ferie facoltative nei giorni in cui la nazionale femminile è scesa in campo. «Si può arrivare al lavoro fino a due ore dopo il fischio finale delle partite. È la stessa cosa che facciamo per gli della nazionale maschile nella Coppa del Mondo. Vogliamo garantire che le competizioni femminili vengano trattate allo stesso modo di quelle maschili».

Che sia un altro piccolo e simbolico passo avanti, avvenuto in un Mondiale a cui Marta è arrivata dopo un anno di stop forzato a causa della rottura del legamento crociato anteriore ad aprile 2022. L’unico grave infortunio della sua carriera. Un aspetto che l’ha portata ad esprimere sempre a pieno il suo potenziale. Il suo punto di forza principale è stato l’accelerazione, che nel corso degli anni ha perso, riadattando il suo gioco. In un calcio che è cambiato e che lei stessa ha contribuito ad innovare.

Marta, leader dentro e fuori dal campo, con una palla tra i piedi e con le parole ai microfoni

«Alcuni non riuscivano a credere che una donna potesse fare quello che facevo io», disse una volta. In Brasile la chiamano “Pelè con la gonna”. Se da una parte vuole essere un complimento, dall’altra il costante riferimento, paragone al mondo maschile finisce per schiacciare indirettamente l’emergere di un movimento femminile. Viene fatto come per legittimarlo, spesso racchiudendolo e connotandolo in categorie e creazioni discorsive associate storicamente alla donna, come quella della gonna, che stonano e stridono con i progressi fatti nel terzo millennio. Se, come per lo strutturalismo e Michel Foucault, il linguaggio non descrive la realtà ma la produce, le parole pesano moltissimo e fanno la differenza anche nel riconoscimento e nell’emergere di un movimento femminile in uno sport in passato vietato.

Marta lo sa benissimo e le sue parole hanno sempre avuto un peso enorme, quanto le sue magiche azioni in campo. Non si è fermata all’essere la migliore sul terreno di gioco, ma si è impegnata, dando il meglio di sè, anche fuori. L’ha fatto nei gesti e nelle dichiarazioni, credendo fortemente nello sport come strumento di motivazione e speranza. Un’enorme responsabilità che ha accettato con decisione. Sulla scia della battaglia che ha combattuto in prima persona e in solitaria, Marta è diventata un riferimento nella rivendicazione dei diritti di tutte le donne, nella sfida alle narrazioni sul patriarcato e le convenzioni comportamentali uomo-donna.

Nel 2018 l’ONU l’ha nominata Ambasciatrice della Buona Volontà per le donne e le ragazze nello sport, un riconoscimento per un’atleta che ha alle spalle una storia di vita con pochi eguali. Un ruolo accettato con l’obiettivo di far sorridere fin dall’inizio tutte le ragazze che si avvicinano al calcio. Ed è proprio a loro che si rivolge in quel discorso spontaneo e di incitamento, di vera e propria ispirazione per tutte coloro che animano o sognano questo sport. Un breve monologo pronunciato in campo subito dopo la fine di quel Brasile-Francia del Mondiale 2019 con il quale abbiamo cominciato questa storia. «Non ci sarà una Formiga per sempre, una Marta, una Cristiane (riferendosi soprattutto al suo Paese, ma volendo parlare a tutti, n.d.r.). Il calcio dipende da voi altre ragazze per sopravvivere. Pensate a questo e datevi da fare. Allenatevi duramente, valorizzatevi dentro e fuori dal campo, desiderate di più. Il talento non vi guida se non vi mettete alla prova tutti i giorni e combattete per raggiungere i vostri obiettivi. Riflettete su questo: piangete all’inizio per sorridere alla fine».


Immagine in evidenza: ©Sue Bernard, Pinterest

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Marco D'Onorio
“Lo sport avrà tanti difetti, ma a differenza della vita nello sport non basta sembrare, bisogna essere" (G. Mura). Fondatore di Vita Sportiva.

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