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Miracle on Ice: quando i sogni diventano realtà

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Provate a fermare un americano e fategli una semplice domanda: “Do you believe in miracles?” Per chi non avesse familiarità con l’inglese, la traduzione è: “Tu credi nei miracoli?” La risposta sarà certamente sì, anche se per disporre di un’affermazione certa bisogna portare indietro la memoria di 44 anni.

È il 1980, tra America e Russia soffia un vento “freddo” di guerra, le tensioni politiche mondiali sono alle stelle, nei bar e nelle case di tutto il mondo un “semplice” cerchietto giallo chiamato Pac-Man inseguiva quattro fantasmi colorati cercando di divorarli, un “Mr Lennon” e sei colpi di pistola mettono fine alla vita di John Lennon, alle 10:25 del 2 agosto una bomba esplode nel centro della stazione di Bologna. A febbraio è tempo dei Giochi Olimpici invernali. È l’America ad ospitare la 13° edizione delle Olimpiadi invernali e gli occhi sono puntati sull’hockey, che per gli americani è come la cerimonia del thè delle cinque in Inghilterra: sacra.

I padroni di casa non vincono un’Olimpiade da venti anni e la favorita è sempre la stessa: l’Urss. Già, i sovietici sono una macchina da guerra che presenta fuoriclasse come Tretjak, Fetisov, Kharlamov e Mihajlov. Gli statunitensi sono semplici ragazzi giovani, rookies che non contano nel loro curriculum esperienze di alto livello. Oltre Oceano si respira un’aria di disfatta. Probabilmente, bisognerà aspettare ancora un po’ prima di tornare a vincere, secondo molti americani. Al timone della squadra, viene scelto Herb Brooks, un tenente di ferro, carismatico, ma saggio e determinato. È un misto tra Phil Jackson e Robin Williams ne “L’attimo fuggente”. Il suo motto trasmesso anche ai giovani ragazzi della nazionale era: “Se nell’hockey contasse solo il talento, non vincereste niente”. Gli Usa iniziano il cammino traballando e non poco: pareggiano all’esordio con la Svezia 2-2 e riescono a qualificarsi solo all’ultima partita contro la Germania.

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Volgendo lo sguardo dall’altra parte, l’Urss è come una filastrocca bellissima: 16-0 al Giappone, 17-4 contro l’Olanda e 8-1 con la Polonia. Arriviamo, dunque, alla memorabile serata del 22 febbraio. A sfidarsi sono l’Urss e gli Usa. Ma come, i ragazzi americani sono arrivati fin lì a giocarsi la medaglia d’oro? Non è semplicemente una partita di hockey, ma uno scontro tra due nazioni, tra l’America e l’Urss, due mondi completamente opposti che si affrontano in piena Guerra Fredda, i capitalisti contro i comunisti.

La sera prima della partita, Mike Eruzione, un giovane giocatore della nazionale, accartoccia una lattina ed esce dal camper in cui viveva con la sua famiglia italiana di origini. Pensa a ciò che affronterà il giorno seguente. È un ragazzo della periferia est di Boston che si ritrova catapultato in una dimensione mondiale, abile ala sinistra a cui piaceva incitare i compagni. Si siede sul prato di fronte al bacino di Lake Placid: sarà una guerra domani, pensa, ma è l’occasione della vita. Il padre, uomo burbero e curioso, probabilmente, non avrebbe mai voluto accendere la tv per vedere suo figlio venire schiacciato da “quei mostri lì”, ma forse lavorare da qualche parte con la speranza di guadagnare qualche soldo che avrebbe aiutato lui e la famiglia. Mike ritorna e, prima di addormentarsi, pronuncia questa frase: “Ho un presentimento: domani andiamo a battere i russi”.

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La mattina seguente il New York Times, in prima pagina, tuona: ”A meno che non si sciolga il ghiaccio, ci si attende che l’Unione Sovietica vinca la sesta medaglia d’oro negli ultimi sette tornei”. La preparazione sovietica si basava su tattiche e schemi, mentre la filosofia americana era “the legs feed the wolf”, ovvero “le gambe sfamano il lupo”. Quel giorno, però, il lupo è l’America, mentre le gambe i russi. Prima di varcare lo spogliatoio dell’Olympic Fieldhouse, Brooks pronuncia un discorso simbolo di una nazione intera: “Se li sfidassimo in dieci partite, ne vincerebbero nove. Ma non questa, non stasera. Siete nati per essere giocatori di hockey. Questo è il vostro giorno”. Gli 8.000 dell’Olympic Fieldhouse accompagnano Davide contro Golia. La partita, la storia entra di diritto nella letteratura sportiva. È un film hollywoodiano di Walt Disney accompagnato dalla musica immortale di Ennio Morricone.

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L’America rimonta per tre volte e il goal decisivo viene segnato da Mike: già, proprio quel ragazzo che la sera prima, osservando l’orizzonte del bacino di Lake Placid vide se stesso con la medaglia al collo. Gli Usa trionfano dopo una vita trascorsa a vedere i rivali vincere. Perché, nella vita, se lo puoi sognare, lo puoi fare. E, chissà, magari, persino Walt Disney, da lassù, ha alzato il sopracciglio.

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Francesco Guglielmi

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