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Alle origini di San Antonio: gli Spurs per come non li conosciamo – Parte I

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Il congelamento del campionato NBA e il periodo particolare che stiamo vivendo hanno concesso parecchio tempo per riflettere sui temi offerti dalla stagione fino al momento dello stop del 12 marzo. Uno dei più caldi è legato al record negativo accumulato dai San Antonio Spurs (27-36) e alla sensazione che la franchigia texana abbia imboccato da qualche mese l’inevitabile discesa, dopo un ventennio irripetibile al vertice della Lega. Avendo in mente le vittorie e i record degli anni passati, confrontare numeri e statistiche di oggi provoca inevitabilmente negli appassionati come negli spettatori neutrali un senso di straniamento. ‘Stiamo veramente parlando degli Spurs?’, viene da chiedersi osservandoli al 12° posto della Western Conference.

Pur rimanendo a galla lo scorso anno, con lo scambio che ha portato Kawhi Leonard ai Toronto RaptorsSan Antonio ha perso ogni punto di contatto, tolto Popovich ovviamente, con le sue edizioni precedenti; quelle gloriose e celebrate, marchiate a fondo dall’impronta di Tim Duncan, Manu Ginobili e Tony Parker e dalla conoscenza radicata e saggia dietro la scrivania di R.C. Buford. Figure e nomi che raccontano di vicende ben note e più volte raccontate, di un’identità di squadra diventata nel tempo una cosa sola col resto della franchigia. Per chi, come me, ha conosciuto gli Spurs nella loro conformazione “moderna”, cioè allenati (e controllati in qualità di simil-proprietario e plenipotenziario) da Gregg Popovich, non può che associarne i colori e il nome all’inimitabile epopea ventennale iniziata proprio con l’arrivo in panchina dell’ex agente CIA.

Ma prima di Popovich e di Buford, di Duncan e David Robinson campioni per la prima volta nel 1999, dei titoli 2003, 2005, 2007 e 2014, insomma prima degli Spurs per come li abbiamo conosciuti fino a poco fa, ci sono stati altri San Antonio Spurs. La loro versione meno decantata, perché di certo meno vincente o non vincente in assoluto. Non una squadra spazzatura, comunque. Né priva di giocatori di calibro o leggendari.

Di titoli nemmeno l’ombra. Ma nella sua storia pre-Pop San Antonio ha mancato i playoff solo cinque volte e vanta buoni percorsi in post-season, conditi da quattro partecipazioni alle Finali di Conference, seppur alternati a premature eliminazioni al primo turno. Le stagioni dal record negativo sono rare e per lo più episodiche (solo dal 1985-86 al 1988-89 la squadra ne infilò quattro consecutive) anche se nel libro dei record sono archiviate due disastrose campagne da 21 e 20 vittorie totali.

Negli anni gli Spurs hanno cambiato decine di allenatori, dirigenti e svariati proprietari non brillando per quella continuità che sarebbe invece diventata il proprio vanto parecchio tempo dopo. Solo alla fine degli anni ’90 il triumvirato formato dal neo proprietario Peter Holt, il General Manager R.C. Buford e coach Gregg Popovich avrebbe regalato stabilità e vittorie a una franchigia troppo soggetta al cambiamento. Talmente tanto da aver addirittura cambiato nome, città e lega di appartenenza nei suoi primi anni di vita.

 

Le origini degli Spurs

In questa sorta di prequel a carattere cestistico l’indagine sulle radici della franchigia texana richiede un salto temporale di oltre cinquant’anni. E’ il 1967 quando l’American Basketball Association (ABA) apre i battenti e si propone come lega alternativa e rivale della National Basketball Associaton (NBA). Ai nastri di partenza della sua prima stagione conta 11 squadre e fra queste, a rappresentare la Western Division dell’epoca, i Dallas Chaparals. Pur guidati da un gruppo di investitori tra i più ricchi dell’ABA, la squadra fatica a riscuotere l’interesse della gente e sul parquet ottiene risultati solo discreti. E’ un miracolo infatti se arrivi qualche centinaia di persone ad assistere alla partita e complice la reticenza dei proprietari a utilizzare l’ingente patrimonio per rinforzare il roster, i Chaparals vivacchiano appena senza riuscire mai a competere per il titolo.

 

Tony Parker indossa la maglia celebrativa dei Dallas Chaparals in una partita di regular season NBA del 2011-2012 (© pinterest.com).

Il primo anno, in cui giocano subito i playoff, rappresenterà già il loro punto più alto perché dopo aver superato in semifinale (il primo turno) gli Houston Mavericks, verranno battuti 4-3 dai New Orleans Buccaneers (del giovane playmaker Larry Brown, che incontreremo più avanti) nella finale della Western Divsion, senza mai più riuscire a farvi ritorno negli anni seguenti. Intanto, la squadra continua a fare anche i conti con una popolarità che stenta a crescere. Passi la prima stagione, in cui fiducia e curiosità dei fan vanno conquistate, nemmeno dopo tre anni però i Chaparals possono dire di sentirsi parte della comunità di Dallas (e viceversa).

Nel tentativo di renderla più mainstream, diremmo oggi, il gruppo dei proprietari decide allora di cambiare il nome della squadra in Texas Chapparals e farla giocare, oltre che a Dallas, anche in altre città dello stato come Fort Worth e Lubbock. La toppa però si rivela peggiore del buco perché dopo pochi mesi, l’indomani di una partita che proprio a Fort Worth fa registrare meno di duecento spettatori, la dirigenza fa marcia indietro. I Chaparals tornano a Dallas e dalla stagione successiva acquisiranno nuovamente la denominazione cittadina. Per un solo anno ancora.

 

Immagini della partita tra Dallas Chaparals e Indiana Pacers davanti allo sparuto pubblico locale.

 

Nella primavera del 1973 infatti le difficoltà economiche e l’insoddisfazione generale spingeranno la gran parte dei proprietari ad accettare la (particolare) offerta di un omologo gruppo di investitori di San Antonio: tre anni di prestito con possibilità di acquisto alla scadenza dello stesso. In caso contrario, la squadra sarebbe tornata a Dallas. Col benestare della controparte nell’ottobre dello stesso anno i fu Dallas Chaparals si presentano all’inizio della stagione ABA 1973-74 sotto il nome di San Antonio Spurs.

 

L’era degli Speroni

Il restyling a cui si sottopone la franchigia interessa anche i colori di rappresentanza della squadra. Abbandonato il vecchio rosso, bianco e blu appartenuto ai Chaparals, gli Spurs ridisegnano la propria identità attorno al nero e all’argento ed entrano in una nuova era. Tuttavia, il legame col passato è mantenuto vivo dalla figura dell’allenatore: Tom Nissalke (Coach of The Year nel 1971-72 alla guida dei Chaparals). Grazie a una serie di acquisizioni che miglioreranno il roster, quelle di Swen Nater (votato Rookie dell’Anno al termine della stagione) e George Gervin su tutte, che vanno a dar man forte alla stella James SilasSan Antonio chiude positivamente la sua prima annata nei pro con un record di 45 vinte e 39 perse. Ai playoff verrà poi eliminata in una tesissima serie persa 4-3 contro gli Indiana Pacers, in cui gli Spurs faranno registrare numeri clamorosi in termini di spettatori.

 

Gli Spurs conservarono i vecchi colori dei Chaparals solo nelle gare di preseason. Poi, il nero e l’argento presero il sopravvento.

 

Migliore inizio non ci potrebbe essere e all’alba della stagione 1974-75 le aspettative sono già alte. Complici però delle tensioni che montavano da tempo tra i proprietari e Nissalke (reo di imporre un gioco a basso ritmo e troppo difensivo) il coach viene presto esonerato e sostituito dal più navigato Bob Bass.

Predicatore dello stile Run and Gun, in voga nella lega, Bass trasforma la squadra in una macchina da punti e cavalca il clamoroso talento di Gervin (23.4 punti di media) e Silas (19.3). Nei suoi due anni in panchina San Antonio vince 51 e 50 partite ma manca sempre l’accesso alla finale playoff. Gli Spurs sono comunque diventati una squadra popolare e rispettata che gode della fama di possedere i fan più rumorosi della lega; anche per questo motivo, al momento della fusione tra ABA e NBA del 1976, la National Basketball Association è ben contenta di accoglierla tra le proprie fila.

To be continued…

 

Alessio Cattaneo
Appassionato di calcio e basket. Una laurea in Comunicazione Interculturale e un passato nella redazione di Sky Sport 24. Convinto che "se non hai niente da fare e sai scrivere, scrivere è la cosa più bella del mondo".

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