Tennis

Coco Gauff, una questione di maturità

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Per Coco Gauff era una questione di tempo. Già, in fondo, prima o poi era destino. Una questione di “quando”. Dubbi sulla sua crescita non avevano mai albergato la mente di nessuno. Una questione di pressione. Sì, perché una ragazza di quell’età, a certi livelli, la percepisce eccome.

È stata l’estate della fioritura, la stagione che, forse, ha coinciso con il raggiungimento della definitiva e tanto agognata “maturità”. Cercata ossessivamente, spinta dai microfoni, dalle telecamere e dalle opinioni del mondo intero. Coco “Cori” Gauff ce l’ha fatta.

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È partita da lontano, da Atlanta, Georgia, figlia di Corey, un dirigente sanitario ex cestista NCAA, e di Candi, un’educatrice capace di distinguersi da giovane nell’eptathlon a Florida State University. Una ragazza afroamericana costantemente paragonata a Serena Williams, il suo idolo d’infanzia. Il trasferimento alla corte di Mouratouglou, la voglia di mettersi in discussione, di crescere anche sulla terra battuta, di fare sacrifici, tutto questo è Coco Gauff.
Gli Stati Uniti d’America hanno sempre avuto bisogno di un eroe per guardare oltre i confini dell’impossibile. Dopo Serena hanno trovato lei, Coco, il futuro del tennis femminile.
A pensarci bene sembra ieri quando ha ascoltato i primi applausi di un pubblico WTA, quando ha varcato il primo corridoio con la sacca dei sogni sulle spalle e le cuffie appoggiate alle orecchie.

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Wimbledon, 2019. Dall’altra parte della rete c’è Venus Williams, 39 anni, 24 in più di Cori, che sembra sua figlia, non una giovane avversaria qualsiasi. Gauff non trema fino alla stretta di mano finale, mettendo in mostra una precocità cristallina e un atletismo fuori scala. Poi l’emozione, l’infantile e puro senso di colpa per aver appena battuto un proprio idolo, un’icona. Due mesi più tardi, a New York, incontra al terzo turno Naomi Osaka. In quel momento la nippo-haitiana è la numero 1 del mondo e campionessa in carica dello US Open. Al termine del match Gauff scoppia in lacrime, ma la giapponese la invita ad asciugarsi le lacrime e ad assaporare il calore del suo pubblico, nonostante la sconfitta. La comprende, è solo un’adolescente che sperimenta le prime emozioni su un palcoscenico simile. La stessa Osaka, quattro anni dopo, si è unita al boato finale dell’Arthur Ashe, conscia che Coco ha percorso una lunga strada e che lei ne ha fatto parte.


Il tennis, però, si sa, è come la vita. Si ha sempre a che fare con se stessi, davanti a uno specchio, i propri occhi e quelli della propria anima. Coco combatte con una “vocina” interna nemica, sempre pronta a farla sentire fuori luogo, inadeguata alle occasioni, non conta l’importanza. Ecco che allora scendono in campo le sue guide spirituali: mamma e papà. Scelgono un nuovo coach, in grado di sbloccarla definitivamente: Brad Gilbert. Già, lo stesso uomo che restaurò la carriera di Andre Agassi e lo stesso che, nel lontano 2004, all’urlo finale di Andy Roddick, era seduto nel suo angolo. Gauff ha deciso di cambiare la scritta sulle sue vecchie t-shirt convertendo il “Call me Coco” in “Call me Champion“. Maturità e, soprattutto, consapevolezza. Una nuova fiducia nei propri mezzi, che l’ha portata a perdere una sola una partita sul cemento quest’estate.

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La mamma confessa che con i suoi coetanei non riesce ad instaurare un vero e proprio dialogo. Una precocità non solo tecnica e atletica, ma anche mentale e di attitudine nella vita. Per ora parla in campo e lo fa piuttosto bene, per il resto sarà un’altra questione di tempo. Prima della finale, sabato, si è intrattenuta in una conversazione al telefono. No, non era un giornalista, era il suo fidanzato. “Vinco, perdo, non si sa, non ci voglio pensare; anzi un desiderio ce l’ho: divertirmi!”. Dopo 2 ore e 9 minuti, l’ansia, la paura, le critiche si sono perse nella magia di una notte americana, mentre un rovescio disegnava la felicità. Complimenti Coco, in fondo era solo una questione di tempo e di… maturità.

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Francesco Guglielmi

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