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NBA: tra competitive balance e superteam

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La stagione NBA è alle porte, ma si sa già che, al 99,9% (data l’imponderabilità della vita, e ancor più dello sport), si chiuderà con una novità. In seguito alla Decision 3.0 con la quale LeBron James ha deciso di portare il suo talento ad Hollywood, per la prima volta dopo quattro anni non saranno Golden State e Cleveland a sfidarsi nelle Finals (anzi, non saranno Golden State e LeBron, data l’appartenenza alla stessa Conference). Mai nei sessantotto anni di vita della più importante lega professionistica della palla a spicchi le stesse due squadre si erano affrontate nell’ultimo atto per quattro stagioni di fila. Prima di Warriors-Cavs neanche per tre, in realtà. Il che ha riportato al centro dell’attenzione il tema dell’equilibrio competitivo, o, per dirla all’americana, competitive balance.

Il concetto, che è alla base dell’economia dello sport fin dai seminali contributi di Rottenberg (1956) e Neale (1964), è molto semplice: più una competizione è equilibrata, incerta, appassionante, maggiore sarà il suo appeal per pubblico, media e sponsor, e maggiori saranno i ricavi delle squadre coinvolte. Per proteggere il competitive balance e garantire un certo turnover al vertice, le leghe americane si sono inventati meccanismi come il revenue sharing, il salary cap e il draft. Lo scopo è quello di evitare che le franchigie più ricche si accaparrino sistematicamente i giocatori più forti e consentire alle squadre più deboli di avvicinarsi il più rapidamente possibile a quelle più forti. E’ chiaro quindi che la monotonia Warriors-Cavs non facesse piacere all’NBA. Oppure no?

Più volte interpellato sulla questione, il commissioner Adam Silver, piuttosto che riconoscere l’esistenza del problema, ha enfatizzato (e invitato ad enfatizzare) l’eccellenza che le due franchigie sono riuscite a creare. D’altronde, se i primi tre atti della serie hanno registrato i livelli più alti di audience dal 1998 (le ultime Finals con Michael Jordan), quel che emerge è che magari il pubblico è disposto a sacrificare un po’ di equilibrio nello svolgimento della competizione per poi ritrovarsi ad assistere ad uno spettacolo di altissimo livello, con squadre zeppe di superstar, nell’atto conclusivo.

Una lega prospera come l’NBA non ha necessità di intervenire repentinamente per risolvere, magari con un irrigidimento delle regole salariali, un fenomeno che potrebbe essere temporaneo. E il trasferimento di LeBron ai Lakers potrebbe esserne la conferma. Anche nel passato ci sono stati esempi di dinastie (i Bulls degli anni ’90 o i Lakers di inizio millennio) o di squadre che arrivavano quasi sistematicamente in fondo (Lakers e Celtics degli anni’80), ma la NBA ha continuato a crescere e generare ricavi. E le stesse dinastie e le rivalità hanno contribuito allo sviluppo e alla popolarità della lega a livello internazionale. Perché, in fondo, al pubblico interessa sì vedere una competizione equilibrata, ma anche assistere ad uno spettacolo di alto livello e identificarsi con le superstar.

In aggiunta a tutto questo, gli scorsi playoff sono stati tra i più avvincenti degli ultimi anni, con entrambe le Finali di Conference giunte a gara 7, l’emergere di una nuova rivalità ad Ovest (Warriors-Rockets), il ritorno in grande stile di franchigie storiche (Celtics e Sixers) a Est. Saranno proprio questi, insieme a uno James non più inserito in uno di quei superteam che sono un prodotto della Decision 1.0, i temi principali della stagione. E sarà interessante verificare se da Est uscirà una sfidante degna per la regina dell’Ovest, che con l’innesto di Cousins promette di essere ancora Golden State (ma, di nuovo, nello sport mai dire nulla per scontato…). In fondo, se mi chiedeste di provare a leggere nei pensieri di Silver, vi direi che magari la sua speranza sia che la tendenza ai superteam non si interrompa, ma coinvolga franchigie diverse da Warriors e Cavs

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La Redazione
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