Devo ringraziare, per la mia enorme passione per lo sport, in tutte le sue forme, persone eccezionali che hanno lavorato a tal punto sul dettaglio da stabilire nuovi record, da portare avanti rimonte memorabili o generare nei fan lo stesso vortice di emozioni da cui sono travolti. L’atleta si è allenato mesi, anni, per una
sola prestazione in cui dovrà dare il massimo, lottando contro altri che condividono con lui lo stesso obiettivo, e come lui sanno che uno solo di loro sarà il migliore.
Ma la vera sfida non è contro i tuoi avversari: in quel momento stai lottando contro te stesso, e non esiste nessun risultato che sia più soddisfacente della consapevolezza di aver dato il proprio massimo per un esito finale che a quel punto diventa una pura conseguenza dell’impegno per perseguirlo. Lo sport è sofferenza: è un dare senza chiedere qualcosa in cambio, si dona la propria vita alla passione per quell’attività in cui, ogni volta che ti trovi in campo, su un ring, su una pista o dovunque si giochi, ti senti libero, e vorresti che la gara non finisse mai, ed ogni azione diventa una nota nella complessa armonia che si sta componendo, ed il tuo corpo diventa un essere perfettamente in accordo con se stesso, in cui ogni singola parte sta compiendo movimenti lunghi e faticosi, ed arriva ogni volta fino al suo limite, e talvolta quel limite lo supera. E dopo averlo superato, basta quel poco tempo per mettersi di nuovo in forma e riprovare.
Il concetto di limite è ciò che ho sempre trovato interessante: si tiene memoria di volta in volta dell’eroica impresa di andare oltre ciò che prima si riteneva il massimo raggiungibile, quello che noi chiamiamo… record. Ognuno ricorderà i momenti storici dello sport che ama: c’è chi ha in mente la vittoria di Tyson su Spinks in soli 91 secondi, chi la peggior sconfitta di sempre per gli All Blacks con soli 26 punti contro i 47 dei Wallabies, chi il successo dei 49ers al Super Bowl XXIV con 55 punti segnati. Ma ognuno sa che ogni record sarà battuto: arriverà un incontro di pugilato della durata di 90 secondi, una sconfitta degli imbattibili All Blacks per 48 a 26 e una squadra che segnerà 56 punti al Super Bowl. E non c’è altro modo per battere un record che continuare ad allenarsi, provare, senza mai pensare di essere il migliore, impegnandosi sempre per diventarlo.
C’è un episodio, cari lettori, che in questo mio primo articolo per Vita Sportiva voglio raccontare: l’episodio che pur non avendo visto dal vivo mi ha insegnato a volere sempre di più. Ci troviamo sulle strade intorno a Nurburg, piccolo paese nella regione tedesca dell’Eifel, quasi al confine con il Lussemburgo, dove per 20km si sviluppa quello che è uno degli autodromi più difficili al mondo: il Nurburgring Nordschleife, o come si preferisce chiamarlo, The Green Hell, l’Inferno verde; perché, si, per 20km non vedi altro che foresta intorno a te mentre cerchi di mantenere la mente fredda, anche se sai che dentro quel piccolo pezzo di
carbonio che stai guidando si toccano i 60 gradi centigradi.
Nel 1983, il World Sportscar Championship faceva tappa in Germania con una lunghissima gara da 1000km. Tra le 38 auto iscritte, era ben chiaro che la competizione per la vittoria fosse riservata a chi schierava Porsche o Lancia. In particolare, nel team Rothmans Porsche correva la gara di casa, in coppia con l’inglese Derek Bell, un ragazzo di 25 anni, talento cristallino, promessa per gli anni a venire, eppure forse troppo sfacciato per portare rispetto all’Inferno Verde. Quel ragazzo portava il nome di Stefan Bellof. Arrivava alla 1000km del Nurburgring dopo la vittoria in Inghilterra, a Silverstone. Ma come dicevo prima, accontentarsi non è nello spirito dell’atleta: Stefan voleva primeggiare anche di fronte al suo pubblico, e voleva farlo in grande stile.
Mattina del 28 maggio, le qualifiche per la gara del giorno dopo si svolgono in un clima surreale: la temperatura è di 5 gradi e sembra che anche le nuvole siano scese a vedere il magico spettacolo che sta per iniziare lungo le colline dell’Eifel. Si scende in pista, si percorrono i primi metri, ogni team crede di essere il più veloce, finché non si sente il graffiante suono di una sola auto, l’unica che veramente sta attaccando il tracciato in una serrata lotta tra l’asfalto e il tempo, senza nessuna paura. E Stefan è al volante di quell’auto. Termina il giro. Scende il freddo anche nei garage e nei tendoni, forse anche ben sotto i 5 gradi. “Ci deve essere un errore” è l’unica frase che rompe il silenzio. Ma non c’è nessun errore in quello che il cronometro ha registrato: 6’11”13. 6 minuti, 11 secondi e 13 centesimi per completare 20 km.
Stefan non si accontenta: partirà davanti il giorno dopo, ma per lui non è abbastanza. Arriva in garage. “Ho commesso due errori” sono le prime parole che dice ai suoi meccanici. Sa di poter essere ancora più veloce, e vuole dimostrarlo. “Voglio gomme nuove, torniamo in pista” dice poi al suo ingegnere, che decide di
dissuaderlo: non c’è motivo di fare un altro tentativo perché quel tempo sarà impossibile da eguagliare per tutti. Stefan Bellof aveva appena qualificato la sua macchina 5 secondi meglio dei suoi diretti inseguitori e ben 16 secondi meglio di chi era anche solo al terzo posto. Torna in hotel con l’amaro in bocca. Ripensa alla sua prestazione, riflette sui suoi errori, studia dove poter fare meglio. Il giorno dopo avrà 44 giri per raggiungere il suo obiettivo.
Piove il 29 maggio, l’asfalto è freddo e umido, e qui Bellof fa la differenza: apre la gara in testa e costruisce un ottimo vantaggio. Poi arriva il momento del primo cambio pilota, al posto di Bellof sale Derek Bell, mentre sulla vettura che li insegue sale Jacky Ickx, che inizia una folle rimonta sotto la pioggia, fino a
portare la sua vettura in testa con 30 secondi di vantaggio. Per Porsche, con Bell e Ickx davanti, è fatta: adesso bisognerà solo arrivare al traguardo e portare a casa la gara. Non è di questo avviso Stefan Bellof: al secondo cambio pilota si sta avvicinando all’auto, recuperando la concentrazione: ripassa il tracciato, ricorda a memoria ogni curva, ogni dosso, ogni salita e ogni discesa. Sale in macchina, e con Jochen Mass al volante al posto di Ickx, Bellof sulla vettura gemella divora l’asfalto, centimetro per centimetro, e in 4 giri i 30 secondi di vantaggio sono spariti: ha riportato la propria auto in testa.
Ma Stefan non si accontenta: lui può scendere sotto quel record del giorno prima, e vuole farlo. Smette di piovere, il tracciato si asciuga: è la sua occasione. “Voglio gomme nuove”. Questa volta viene accontentato, e riparte. La gara non ha più valore per lui. Nessun primo posto vale quanto quel tanto desiderato giro
perfetto. Il team lo avverte: “Slow” è la comunicazione che gli viene ripetuta più volte. E, nonostante l’auto che è in pista da diverse ore, nonostante il maggiore carico di benzina, nonostante il maggior traffico rispetto alla qualifica, Stefan si lancia verso un nuovo record.
“Non può riuscirci” è il mormorio all’interno dei box. Piloti, ingegneri, meccanici e semplici tifosi e fan hanno capito cosa sta per fare e rimangono incollati al monitor in attesa di qualche segnale. Ecco il segnale: dopo il primo intertempo, Stefan è il più veloce in pista, ma non solo il più veloce in quel momento, è più veloce del suo stesso tempo registrato 24 ore prima. Non frenerà alla Sprunghugel, farà alzare l’auto da terra, per poi cadere delicatamente, di nuovo sul tracciato, senza aver perso nemmeno un millesimo di secondo in cui poter tenere giù l’acceleratore. Ma il fato è beffardo, e così Stefan perde il controllo dell’auto in volo, che atterra su una sola ruota e scivola lungo il guard-rail fino a fermarsi, distrutta, pochi metri più avanti.
Era andato oltre il limite, si era spinto fino al punto da tradirsi da solo, da chiedere troppo. Aveva appena mancato il giro più veloce che si potesse mai registrare. Aveva appena abbandonato quel tentativo all’esterno di una curva subito dopo un dosso. Torna a piedi al suo garage, firma qualche autografo e si prepara per la gara successiva: non c’è tempo di recriminare, ci stava riuscendo, ma ormai è finita. Tra tre settimane si corre a Le Mans, nessun rimpianto.
Stefan chiuderà quarto in campionato quell’anno, e poco più di due anni dopo, verrà coinvolto in un incidente rivelatosi poi mortale sul tracciato di Spa-Francorchamps, sulle Ardenne, innescato proprio da quel rivale che porta il nome di Jacky Ickx.
Ancora oggi, dopo quel dosso, il Nurburgring ha una curva complessa, dove far sterzare l’auto come vorresti è quasi impossibile: in memoria di quella coraggiosa, quasi spavalda, ricerca del limite, quella curva porta ancora oggi il nome di “Esse di Stefan Bellof”.
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