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Draymond Green: l’anima dei Golden State Warriors

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Quando si parla dei Golden State Warriors, l’argomento principale è quanto sia forte Stephen Curry o quanto gli manchino Klay Thompson e Kevin Durant, che assieme al n°30 hanno formato il trio offensivamente più forte della storia NBA. Raramente però si pone l’attenzione sul giocatore che è il vero fulcro della squadra, che permette a tutti i suoi compagni di esprimersi al meglio in attacco, e in difesa è l’ultimo baluardo da superare, molto spesso con esito negativo per gli attaccanti: Draymond Green.

Draymond Green in maglia Golden State, l’unica indossata sin dal suo arrivo in NBA nel 2012. ©️ Getty Images

Draymond Green non è un giocatore capace di prestazioni balistiche alla Curry – in carriera ha il 31.6% da 3 punti, ma con soli 2.8 tentativi a partita – e, in generale, non è una macchina da punti come lo potevano essere Durant o Thompson – per rimanere ai Golden State 2016-2019, forse la squadra di basket più forte di sempre, sicuramente la più divertente da guardare – anzi, le statistiche di Dray non sembrano nemmeno quelle di un giocatore capace di guadagnarsi per 3 volte la partecipazione all’All-Star Game – le sue statistiche in carriera sono di 8.8 punti, 6.9 rimbalzi e 5.3 assists – ma la sua importanza va ben oltre i soli numeri: Green è fondamentale per gli Warriors per svariati motivi, primo tra tutti la sua capacità di determinare l’emotività della squadra; infatti, quando Draymond perde la bussola della partita, ad esempio prendendo falli tecnici evitabilissimi, anche i suoi compagni iniziano ad innervosirsi, andando a perdere anche da situazioni molto vantaggiose.

L’esempio lampante sono le NBA Finals del 2016, tra Golden State e i Cleveland Cavaliers guidati da LeBron James: in una serie al meglio delle 7 partite, gli Warriors erano 3-1 e in Gara 5 avevano la possibilità di chiudere la serie, ma a causa dei troppi falli tecnici ricevuti durante i Playoff, Green saltò quella partita, che risultò decisiva nel cambiare gli equilibri della serie: LeBron James e Kyrie Irving giocarono una partita leggendaria, segnando 41 punti a testa e portando la serie sul 3-2, riuscendo poi nell’impresa di vincere la serie 4-3 contro la squadra che aveva registrato il miglior record in Regular Season nella storia NBA (73 vittorie e 9 sconfitte).

LeBron James e Draymond Green discutono poco dopo lo scontro che ha portato al fallo tecnico per Green in Gara 4. ©️ cbssports.com

Draymond Green però non è importante solo a livello emotivo, ma anche se non soprattutto a livello difensivo: nonostante la stazza importante – 198 cm per 104 kg – la sua rapidità di piedi gli permette di difendere su tutti i ruoli avversari, dal playmaker al centro. Questa sua capacità fisica gli ha portato, già ai tempi del college a Michigan State, il soprannome di “The Dancing Bear” ossia l’orso ballerino, proprio perché per caratteristiche fisiche sembra la perfetta fusione tra un orso e un ballerino.

Le sue qualità difensive hanno permesso a coach Steve Kerr e al suo staff di creare quello che, fino al 2019, era il sistema difensivo più efficace della Lega: grazie all’apporto di Green, infatti, i Golden State hanno avuto per 6 anni consecutivi un defensive rating, ossia una stima di punti concessi su 100 possessi, inferiore alla media delle altre squadre NBA, indice di una difesa molto efficace.

Green in difesa sul perimetro su Batum, ala dei Los Angeles Clippers. ©️ nbcsports.com

Dray e i Golden State sembrano fatti l’uno per l’altro: Green esalta le qualità dei vari Curry e Thompson, ma questi fenomeni esaltano le qualità di Green, che viene sgravato dalla maggior parte delle responsabilità offensive. Infatti nella stagione passata, senza gli infortunati Curry e Thompson e il partente Durant, pur migliorando le sue statistiche personali, Draymond non è stato il giocatore incisivo a cui eravamo abituati, proprio perché per massimizzare il suo gioco è fondamentale giocare con qualcuno capace di sfruttare gli spazi creati dal n° 23.

Per questo, il ritorno di Curry in questa stagione ha permesso all’orso ballerino di tornare a fare quello che gli piace di più: offensivamente giocare per i compagni, prediligendo gli assists ai punti, e difensivamente essere il punto di riferimento di una squadra che è tornata a difendere in maniera dignitosa, dopo un 2019-2020 disastroso soprattutto a livello difensivo.

Nella stagione in corso, Green ha estremizzato ancor di più il suo gioco, diventando in vero playmaker alternativo a Curry: prendendosi soltanto 6 tiri di media a partita, Dray smazza quasi 9 assists a serata – 8.9 per l’esattezza, la maggior parte a beneficio di un Steph Curry, che ormai non ha più aggettivi in grado di descrivere appieno la sua grandezza.

Guardando i suoi Season-High, questa tendenza viene confermata: a fronte di un massimo di 18 punti, Dray ha distribuito un massimo di 19 -dicasi diciannove, prestazione degna dei migliori passatori della storia del gioco – assists in una singola partita. In generale nel 2020-2021, Green è andato in doppia cifra per punti 18 volte, mentre contando gli assists le volte in doppia cifra per il n°23 diventano 24, dimostrando le incredibili doti da passatore dell’ala uscita dal college di Michigan State.

Gli highlights dei 19 assists  distribuiti da Green contro Charlotte: dal palleggio, prendendo il rimbalzo in attacco, guidando la transizione offensiva, insomma, una lezione sul fondamentale del passaggio degna del miglior Magic Johnson

La straordinarietà di Draymond però, ancora una volta, non risiede nei suoi numeri personali, ma nelle statistiche che i Golden State hanno quando l’Orso Ballerino è in campo: con Green sul parquet, gli Warriors tirano meglio (58%, rispetto al 51% quando Dray è in panchina), distribuiscono più assist (69.5% contro il 63.1% nei minuti senza Draymond) e, in generale, hanno un offensive rating, ossia la stima di punti creati su 100 possessi, di 11 punti più alta quando Green è sul parquet.

Questo dimostra quanto Day-Day sia fondamentale per Golden State: senza di lui, probabilmente assisteremmo a prestazioni individuali ancora più clamorose da parte di Steph Curry, ma ancor più probabilmente gli Warriors non sarebbero 8° ad Ovest, aritmeticamente qualificati per il Play-in, il mini torneo che decide gli ultimi due posti per entrare ai Playoff.

Perché la differenza tra avere e non avere in squadra giocatori come Draymond Green è la stessa differenza che c’è tra fare i Playoff e mettersi al dito l’anello di campione NBA a fine stagione.

Immagine in evidenza: ©️ Nbareligion.com

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Federico Bollani

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