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Remember the name, Wayne Rooney!

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19 ottobre 2002; nel Merseyside, sponda Everton, si respira l’aria dei grandi eventi, l’aria che si percepisce quando qualcosa di veramente grosso sta passando per la città. Tra i pub, l’aria si carica di attesa, l’attesa che c’è quando l’Arsenal imbattuto da 30 (lo scrivo in lettere, TRENTA, per aiutare a capire meglio la grandezza di questo numero) partite di campionato. E’ l’Arsenal degli Invincibili, quanto di più simile al meglio del meglio ci sia in quegli anni nel calcio europeo, la rappresentazione fatta squadra dell’utopia di Wenger. Lasciano la stessa impressione che si ha quando si conosce una ragazza bellissima esteriormente, ma che scopri essere anche molto intelligente: i Gunners giocano a ritmi impensabili, combinano triangoli ad altà velocità ed usano lo spazio come tela da dipingere per i suoi pittori con le scarpette tacchettate, ma risultano anche terribilmente solidi. I motivi si chiamano Sol Campbell, Kolo Tourè, Gilberto Silva e Patrick Viera, un quartetto roccioso adibito a coprire la zona centrale del campo, dove spesso si decidono le contese. Ma l’Everton di quei tempi, guidata da David Moyes, è una buona squadra, e all’ultimo minuto il risultato è in parità sull’1 -1.
A pochi secondi dal termine, il granitico mediano dei Toffes Thomas Gravesen allontana in malo modo un pallone vagante ad altezza metà campo, nello stesso modo in cui un robusto buttafuori accompagna con pochi ringraziamenti all”uscita della discoteca un cliente molesto. Il pallone viene addomesticato con grande eleganza, controllato e scaraventato sotto la traversa con un improvviso destro a giro da un 17enne che ha esordito quell’anno in maglia Everton. Un gesto tecnico fulmineo, imprevedibile, quasi incoscente, che segna più di una storia. Prima di tutto, termina la striscia positiva dell’Arsenal, che sembrava destinata a durare fin quando loro stessi non avessero deciso. Poi, come il telecronista ci aiuta a ricordare, segna l’inizio della gloriosa storia di Wayne Rooney.

 

Da li ne è passata di acqua sotto ai ponti, e Rooney ne ha fatti molti altri di gesti tecnici clamorosi diventati iconici. All’Everton dura due anni, di cui il secondo tra alti e bassi, come si addice al giocatore. Poi, il trasferimento al Manchester United, per certificare la propria grandezza e cercare quella gloria che “Hummer Rooney”, come lo chiamano i tifosi, vuole con tutta la forza che possiede nelle robuste gambe. Con Sir Alex Ferguson matura, gioca e soprattutto decide le partite. E interpreta diversi ruoli negli anni: seconda punta mobile attorno a un centravanti più statico, attaccante centrale in un attacco a tre, esterno d’attacco, trequartista e verso il finire della sua avventura nei Red Devils addirittura regista, in un tentativo abbastanza maldestro di allungargli la carriera. Il Rooney che si presenta allo United inizialmente è un attaccante estremamente avanti coi tempi, per mobilità, completezza, intensità e capacità di adattamento. Semplicemente, sa fare molto bene praticamente tutto: sa finalizzare in milioni di modi, è un rifinitore di alto livello, ha lo spirito di sacrificio dei grandi combattenti, e se non fosse inglese, sarebbe stato un moderno William Wallace nel suo ambito. La sua stessa duttilità, negli ultimi giri di pista della carriera, ha creato confusione in Van Gaal prima e in Mourinho poi sul suo impiego, facendolo restare praticamente schiavo del suo essere completo. Dopo 393 presente e 183 reti distribuite lungo 13 stagioni, Rooney riparte da dove ha cominciato. Ma capita nel momento sbagliato, perchè l’Everton della scorsa stagione è senza dubbio una delle squadre più tristi e deludenti degli ultimi anni in Premier, nonostante sulla carta abbia una più che discreta rosa. Resiste solo una stagione, condendola con 31 presenze e 10 gol, non un brutto risultato di certo. Invece è notizia dei giorni scorsi che abbia accettato il trasferimento in MLS, nel D.C. United, non di certo una squadra di primo livello nel panorama a stelle e strisce.
Dopo aver vinto 5 Premier League, 1 Coppa d’Inghilterra, 6 Community Shield, 4 Coppe di Lega Inglese, 1 Champions League, 1 Mondiale per Club e 1 Europa League, siamo di fronte al tramonto di un giocare di certo non più affamato, appagato e sfinito da anni al massimo livello vissutti con la massima intensità, unico modo che conosce.
Quel 19 Ottobre 2002, il telecronista televisivo esclamò estasiato: “Remember the name, Wayne Rooney!”. E si, siamo riusciti a ricordarlo.

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La Redazione
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