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Stephen Curry: Underrated – La fortuna dell’essere diversi

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Stephen Curry: Il più grande tiratore di sempre? Senza dubbio alcuno.

La più grande point-guard di sempre insieme a Magic Johnson? Molto probabilmente, sì.

Ironico, se si pensa che lo Stephen Curry liceale era un mingherlino di 1.83 metri per 68 kg: non un telaio da NBA. Eppure ad oggi penso saremo tutti d’accordo nel definirlo come un qualcosa di unico, uno dei due – insieme a LeBron – giocatori più influenti degli ultimi quindici anni, una bandiera ed un simbolo d’ispirazione per molti, sia dentro che fuori dal campo (c’è chi scomoda anche la retorica del game changer, talmente spiccia ed abusata che in questa sede passeremo volentieri oltre).

Non stupisce che Underrrated parli proprio di questo. Le difficoltà che un giocatore sottodimensionato e atleticamente svantaggiato deve affrontare per poter – se non raggiungere – quantomeno contemplare l’idea di calcare un parquet NBA, una competizione sempre più popolata da super atleti e freaks (vedasi l’ultimo figliol prodigo Victor Wembanyama). E, in linea con la qualità media dei prodotti audiovisivi Apple, non stupisce neanche che questo documentario torni a casa vincitore.

Eliminiamo subito il problema principale: pur senza troppa recidività, il prevedibile scivolone nel drama che caratterizza quasi ogni biopic di canone sportivo. “Stephen Curry non era un predestinato“, “Stephen Curry ce l’ha fatta da solo“, “era difficile essere Stephen Curry“, eccetera, eccetera. Sì, che non avesse i favori dei pronostici è certo. Ma si tratta comunque di un ragazzo cresciuto in un contesto familiare e sociale d’agio (o per lo meno più agiato rispetto a molti altri cestisti in NBA), figlio di un giocatore professionista con cui ha avuto modo di allenarsi: non proprio una cosa da tutti.

Ma si sa, la normalità non vende biglietti.

Non manca quindi l’ostentata narrazione ascendente tipica del racconto sportivo. Certo è che c’è modo e modo. E qui viene fuori tutta l’eleganza e la consapevolezza di una casa produttrice come la A24: “c’è da accettare questo compromesso di sceneggiatura? Ok, ma lo facciamo a modo nostro.”

Ecco che allora la regia di Peter Nicks si organizza in un gioco quasi inedito per il tipo di prodotto che è Underrrated. Il potenziale dell’immagine di repertorio e l’amatorialità della sua forma brillano grazie all’accoppiamento con l’uso della macchina a mano. Si riesce ad indagare i volti e gli sguardi degli attori in scena con una sincerità impossibile qualora si fosse optato per la staticità della classica regia da intervista.

La camera indaga i primi e primissimi piani – un gioco di retorica certo, ma molto efficace – mano nella mano con una colonna sonora che oscilla fra melodie al limite dell’onirico (passatemi il termine) e voice over che raccontano la storia del più grande tiratore di sempre, dagli esordi al quarto titolo, senza mai scadere nella pomposità di un crescendo che esplode ad ogni canestro.

E tutte queste soluzioni audiovisive sono possibili grazie ad un montaggio clamoroso (nomination agli Oscar come minimo), che lascia che voci ed immagini teoricamente scollegate (vedute aeree cittadine, semafori, strade, pioggia…) si sovrappongano nella generazione di un mondo interiore tutto da decifrare: pur al netto di un’impostazione aprioristica, di una sceneggiatura e quindi di un calcolo, Underrated fa per davvero entrare lo spettatore dentro Stephen Curry con una – presunta – sincerità che è a dir poco disarmante.

Si temeva un effetto The Last Dance, un racconto ampolloso e macho, solennemente vincente. Invece ci troviamo davanti ad una storia sempre in bilico sul silenzio, sempre in paziente attesa del momento giusto per rilasciare la sua emozione, lasciando che il ritmo si perda fra le immagini senza mai scadere nella frenesia.

Underrated è un documentario di estrema classe, un po’ come il giocatore che è Stephen Curry. Da non perdere.

Immagine in evidenza: © Gazzetta dello Sport

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Jacopo Corradini

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