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Andreas Brehme: l’essenza dell’InterTruppen

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Nel calcio sono pochi i giocatori considerabili patrimonio universale di questo sport, a prescindere dalla bandiera di appartenza, che sia di club o di nazionale. Giocatori ai quali, nonostante le rivalità, i tifosi avversari in maniera tutt’altro che ipocrita ne riconoscono il valore inscalfibile. Trattasi della più grande vittoria per uno sportivo. Questo è il caso di Andreas Brehme.

Alla sua carriera si possono collegare tanti momenti memorabili. Quello che sicuramente è frequentemente ricordato è il rigore a Italia 90 con cui spiazzò Goycochea in quella finale mondiale con l’Argentina che risultò essere tra le meno apprezzate di sempre. Tanto che la firma storica Gianni Brera la definì come strazio imparagonabile. L’unico spunto tecnico degno di nota fu proprio il rigore calciato da Andy, e soprattutto le modalità. Sinistro per antonomasia, decise di decidere le sorti di una partita di quel rango calciando il rigore di destro.

Franz Beckenbauer, purtroppo anche lui recentemente ingaggiato per i campi di calcio celesti, che allenò la compagine teutonica nella campagna mondiale nel belpaese, espresse una frase celebre: “lo conosco da 20 anni, ma non so ancora se sia destro o mancino”. La finale del mondiale contribuì a renderlo noto come l’ambidestro: usava il sinistro per il tiro potente dalla lunga distanza, delle vere e proprie cannonate che però venivano alternate dall’utilizzo del destro per colpi da biliardo come quello sopra citato.

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E queste erano soltanto alcune delle peculiarità tecniche che resero Brehme unico. Era dotato soprattutto di caratteristiche umane che lo legarono particolarmente ad una squadra, che con lui ne condivideva il dna combattivo e mai arrendevole: l’Inter.

L’Inter degli anni ’80, poi l’arrivo del Trap e dei tedeschi

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Prima del suo arrivo, l’Inter non veniva da un periodo semplice: negli anni ’80 era reduce da uno scudetto 1979/80 con il sergente di ferro Eugenio Bersellini che ben presto si rivelò una meteora, specialmente se confrontato ai successi europei e mondiali di un Milan, che acquistato da Berlusconi passò dall’inferno della doppia Serie B all’inizio di una delle più lunghe ere, se non la più lunga del calcio europeo, in termini non solo di vittorie ma anche di gioco espresso. Nonostante la presenza di giocatori di assoluto livello in rosa, tra cui peraltro un’altra istituzione del calcio tedesco, Karl-Heinz “Kalle” Rumenigge, l’Inter non riuscì a trovare il bandolo della matassa per costruire un ciclo vincente come quello messo in atto dai rossoneri. Questi ultimi peraltro si contraddistinsero nella cultura calcistica di massa con la presenza di tre giocatori in particolare: Van Basten, Gullit e Rijkaard, che resero celebre quella squadra come il Milan degli Olandesi, condita dall’apporto di grandi campioni proiettati al rango di leggenda come Paolo Maldini e Franco Baresi su tutti.

L’Inter dell’allora presidente Ernesto Pellegrini faticò dunque a reggere il passo, il focus del calcio milanese era spostato sull’altra parte del Naviglio.
C’era bisogno che l’Inter battesse un colpo, per non passare definitivamente in secondo piano.
Il primo passo fu l’ingaggio di Giovanni Trapattoni nel 1987. Il Trap aveva vinto di tutto con la Juventus. Se c’era uno nel panorama calcistico italiano che aveva la chiave dello scrigno della vittoria, quello era lui.
L’avvio della sua esperienza con la Beneamata non fu indimenticabile.
Problemi con determinati giocatori e l’etichetta dell’Inter come una squadra brutta da vedere a differenza del Milan bello e vincente, fecero attirare sul Mister di Cusano Milanino aspre critiche, che lo portarono in seguito ad esprimere una frase lapidaria, che forse descrive veramente quanto quello interista non fosse uno degli ambienti più facili: “L’Inter è capace di tritare tutto e tutti, allenarla è come stare dentro una lavatrice nel mezzo di una centrifuga”.
Tanto è che pure il presidente Pellegrini cominciò a dubitare della scelta fatta, ma ad un allenatore come Trapattoni, non potevi non concedere un’altra possibilità.
Era rimasto solo un modo per fermare quella centrifuga: fare piazza pulita e costruire un nuovo ciclo.
Venne l’anno 1988.

Il mercato fu spumeggiante. Alla corte nerazzurra si accasò Lothar Matthaus, grande centrocampista del Bayern Monaco vice campione d’Europa. Nell’operazione rientrò anche Andy Brehme. Un acquisto passato in sordina, con peraltro alcune malelingue che ritenevano che il suo arrivo fosse semplicemente funzionale a quello dell’altro vero campione tedesco: un grande errore di valutazione.
Le qualità tecniche del terzino erano evidenti, ma soprattutto a contare furono quelle caratteriali, che lo resero l’essenza dell’Inter che sarebbe venuta ad esistere.
Le sue cavalcate imperiose nella fascia sinistra, i suoi sinistri da fuori, nonché rigori decisivi, contribuirono alla marcia trionfale nella campagna 1988/89, nella quale l’Inter fu artefice di uno degli scudetti più importanti della storia del calcio italiano, lo scudetto dei record, vinto nel match decisivo al cardiopalma contro il Napoli di Maradona. Sempre i tedeschi contro Maradona, come se fosse un prequel di quella finale mondiale che fece diventare Andy un eroe nazionale.

Ma c’era ancora altro da conquistare. L’Inter nella sessione estiva di mercato acquistò un altro teutonico, l’attaccante Jurgen Klinsmann, andando a formare l’Inter dei Tedeschi, la cui caparbietà e orgoglio si contraddistinse alla classe e pulizia calcistica del trio olandese del Milan, andando a confermare la differenza quasi ontologica tra le due squadre, delineata dal citato Gianni Brera: l’Inter dalla indole difensiva e contropiedista, che faceva della compattezza ed unità di intenti la propria virtù, rispetto all’indole giochista del Milan.
Un dualismo, quello tra i tre tedeschi ed il trio olandese, che curiosamente si ripresentò agli ottavi di finale sempre di Italia 90 tra la Germania e l’Olanda, dove Brehme fu autore del suo classico dei colpi da ambidestro: sullo sviluppo di un calcio d’angolo, riceve palla dall’angolo sinistro al limite dell’area di rigore, e con un colpo al contagiri sul secondo palo confeziona il passaggio del turno della Germania. Indovinate dove? A San Siro, quasi come se fosse un Derby di Milano.

Le sue performance al mondiale gli valsero addirittura il terzo posto nella classifica del pallone d’oro, vinto dal compagno non solo di club, non solo di nazionale, ma di vita Lothar.

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Particolare per Andreas e l’Inter fu anche la stagione 1990/91, con la lotta fino alle ultime giornate di campionato con la Sampdoria di Boskov e della coppia dei gemelli del gol VialliMancini, ma soprattutto fu straordinaria la campagna europea in Coppa UEFA, vinta anche con rimonte da Pazza Inter (anche se questo termine non era ancora coniato, ma già comunque manifesto) come quella al ritorno a San Siro contro l’Aston Villa di Platt, che con un perentorio 3-0 cancellò la non brillante prestazione di Birmingham, finita 2-0 per i Villans. Nel 1992 Brehme lasciò mal volentieri l’Inter (alle prese con l’inizio di un piccolo periodo di transizione post abbandono di Trapattoni, salvo poi riprendersi con la nuova gestione Moratti dal 1995) per accasarsi al Real Saragozza.

La sua carriera sembrava destinata al declino, quando invece, avvenne un qualcosa di clamoroso. Il suo Kaiserslautern nel 1998 vinse un indimenticabile Bundesliga da neopromossa, impresa mai accaduta nel calcio tedesco.
Un’altra gemma di una carriera straordinaria, fatta di momenti e gesti memorabili, che hanno elevato Brehme al rango di leggenda.
Una leggenda che non ha mai perso occasione per rimembrare ricordi di un vissuto che ha inciso nella sua carriera e nel cuore degli interisti, un legame forte dettato anche dal fatto che con le sue doti caratteriali ha rappresentato non solo l’Inter dei Tedeschi, ma lo spirito nerazzurro.

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Tommaso Palazzo

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