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Cesare Rubini, l’Olimpia Milano e la questione di Trieste

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In queste ultime settimane la presunta neutralità dello sport rispetto alla politica, e in particolare rispetto alle contese territoriali fra quegli stati che poi si sfidano “pacificamente” in campo sportivo, è stata messa per l’ennesima volta in crisi – se proprio ce ne fosse stato bisogno – da quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza. Non solo perché sugli spalti l’esposizione delle bandiere d’Israele e della Palestina ha diviso le curve di mezza Europa, ma anche perché il posizionamento politico è andato a toccare gli stessi sportivi, dai calciatori musulmani come Karim Benzema fino allo spot fatto prontamente girare dalla Federcalcio israeliana per invocare il rilascio degli ostaggi. Prese di posizione sbalorditive per noi italiani, abituati ormai da anni ad un deprimente piattume in questo ambito, assuefatti come siamo, tramontata definitivamente l’era delle eccezioni d’estrema sinistra e d’estrema destra Cristiano Lucarelli e Paolo Di Canio, all’idea che uno sportivo non si esporrà mai su certi temi, pena l’operazione terra bruciata che subito si scatenerebbe ai suoi fianchi da parte del pubblico e soprattutto degli sponsor. C’è stato un tempo, però, lontano ma forse non troppo, in cui anche in Italia si ragionava in un altro modo, ed anzi partiti e movimenti politici investivano assai sullo sport.

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La bandiera italiana torna a sventolare a Trieste, in occasione del definitivo ritorno della città adriatica entro i confini nazionali italiani (5 ottobre 1954)

Come già emerso negli studi di storici dello sport come Fabien Archambault, Alberto Zanetti Lorenzetti e Nicola Sbetti, la questione diplomatico-politica dello status di Trieste (1945-1954) ebbe un’eccezionale fioritura in ambito sportivo: sia perché le tensioni con la Jugoslavia spesso si riflessero in questo ambito, come nel celeberrimo caso delle aggressione ai ciclisti partecipanti alla tappa Rovigo – Trieste durante il Giro d’Italia 1946, sia perché in Italia molte manifestazioni sportive o addirittura intere società vennero intitolate alla città di San Giusto, o ai territori perduti in area giuliano-istriana-dalmata. Milano e il basket, con la nascita dell’Olimpia, offrono l’esempio forse più famoso di tale fenomeno.

Il presidente Adolfo Bogoncelli, con un giocatore

Il personaggio da cui partire è Adolfo Bogoncelli (Treviso, 1915 – Milano, 1989), un imprenditore che si era imbattuto nella pallacanestro a Modena, durante gli anni passati a studiare all’Accademia Militare: qui aveva infatti avuto modo di militare nella squadra del locale Gruppo Universitario Fascista (GUF), un’associazione di regime che in effetti aveva diffuso la pratica di questo sport fra i ragazzi e pure le ragazze ad essa affidati (cadetti militari compresi). Come ricordato dallo stesso Bogoncelli, quando quest’ultimo si trasferì a Milano, «il basket mi inseguì», tanto che lo spinse a fondare, nel 1945, una squadra chiamata Triestina. Il perché è presto detto: «in quei tempi volevano strappare Trieste all’Italia. Avevo un forte legame, come veneto, con quelle terre. Il Partito d’Azione mi sollecitò a dare il mio contributo alla causa. Con i finanziamenti creai la Triestina a Milano con lo scopo di creare l’italianità di Trieste, della Venezia Giulia e della Dalmazia. Conoscevo qualche ragazzo in gamba, puntai su di loro. Il primo della lista era Cesare Rubini. Cesare era un tipo avventuroso, furbo, sapevo che le sue qualità potevano aiutarlo a diventare un grande personaggio, se si fosse ripulito da certe scorie. “Io vengo a Milano se lei mi dà vitto, alloggio e un piccolo salario”, mi disse. “Sarei felice”, continuava a ripetermi, “il giorno che riuscirò a guadagnare 150 mila lire al mese”».

Oltre che campione della Nazionale italiana di pallacanestro, Cesare Rubini diede il proprio contributo ai colori azzurri anche in quella di pallanuoto

Ben presto, però, la situazione precipitò, perché «a metà stagione il Partito d’Azione si sciolse»: in effetti, la crisi di governo del dicembre 1945 diede un colpo mortale alla formazione politica che tanto aveva contribuito alla Resistenza, tanto che da lì a poco il PdA uscirà dalla scena politica nazionale. Bogoncelli allora cercò di salvare la neonata società con le proprie mani: «misi mano al portafogli, ma a fine stagione la situazione economica si era fatta pesante».

La fiamma del Partito d’Azione, che bruciò tanto ardentemente quanto velocemente…

Il trevigiano si rivolse allora ad un ricco comense, motivo per cui la squadra scese per un po’ in campo con il nome di Pallacanestro Como. Così, «forte dei “nazionali” Rubini, Pellarini e Sumberaz uniti al talentuoso Nino Miliani, la Pallacanestro Como vinse il proprio gruppo, guadagnò l’accesso al girone di semifinale dove però prevalse la Virtus Bologna, pochi giorni dopo campione d’Italia. Nel contempo il [Dopolavoro] Borletti guidato dal tecnico Fedeli (e con la formazione composta dal capitano Paganella, Reina, Dietrich, Sforza, Balbiani, Sturaro e Sivieri) si classificò solo quarto nel proprio raggruppamento e fu retrocesso nella seconda serie». Con il passaggio a Como, come sottolineato dallo storico dello sport Nicola Sbetti, la società fondata un anno prima come Triestina «rinunciò a qualsiasi rivendicazione politica».

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Studentesse milanesi manifestano per l’italianità di Trieste e dei territori perduti (12 marzo 1946)

La soluzione comense, tuttavia, fu, come ammesso dallo stesso Bogoncelli, di «respiro breve, fortuna che nel frattempo la squadra del Dopolavoro Borletti di Milano fosse promossa in B. Nacque così l’Olimpia Borletti o l’Olimbor, come a qualcuno piaceva scrivere o chiamarci». Nella stagione 1947-1948, in effetti, «l’Olimpia si classificò seconda del Girone A dietro la Reyer Venezia e in una sorta di playoff ante litteram chiuse al terzo posto dietro Virtus Bologna e Roma. Nel contempo, il Borletti, che aveva disputato il campionato di seconda serie, venne promosso in serie A […]. A pochi giorni dall’inizio del campionato 1948-49, il primo del dopoguerra a girone unico, fu attuata la fusione tra Olimpia e Borletti che conservò il proprio nome sulle magliette». Bogoncelli stesso, ragionando sugli esiti sportivi futuri della società cestistica, ironizzava notando che proprio «io che lottavo per l’italianità, capii che il basket poteva sfondare solamente con gli stranieri».

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Poster bilingui che annunciano alla popolazione di Trieste l’istituzione di una Settimana del Partigiano (marzo 1946)

Rivolgiamoci ora ad un altro testimone importante di quegli anni, ossia il giornalista Aldo Giordani, che ricorda la vicenda dall’altra parte, quella del Dopolavoro Borletti, squadra aziendale che «stentava a tenere il passo». Scrive dunque Giordani che «dopo un campionato molto sofferto, decise per la fusione con l’espressione nascente dell’organizzazione moderna, con l’Olimpia cioè di un giovane industriale che ragionava in termini di qualche lustro in anticipo sugli altri e che galvanizzava gli entusiasti, ma metteva paura ai codini: Adolfo Bongoncelli. Dopo la fusione, a lungo la squadra si chiamò “Borolimpia”». Giordani spiega così la situazione dei milanesi durante la prima stagione post-conflitto (1945/1946), in occasione della quale la Federazione Italiana Pallacanestro (FIP), non riuscendo a garantire né campionati di serie diverse né un unico girone nazionale, optò per raggruppare tutte le squadre iscritte in vari gironi interregionali che avrebbero portato poi Virtus Bologna (vincitrice finale), Reyer Venezia e Libertas Roma a sfidarsi nella finale a 3 nazionale di Viareggio (26/27 luglio 1946): «Nel primo campionato del dopoguerra, alle finali il Borletti non era giunto. Ma stava maturando il suo futuro. Allora Trieste era staccata dalla madrepatria, era in una specie di “Territorio” a parte, una “Zona A” che impediva ai nostri fratelli di San Giusto di partecipare alle attività della nazione. Ma un gruppo di giocatori di basket aveva lasciato Barcola e Piazza dell’Unità e aveva fondato il G. S. Triestina di Milano. Ne facevano parte i Rubini e i Pitacco, i Pellarini e Fabiani. I “bianchi” milanesi erano terminati al terzo posto, preceduti anche dall’Onda Pavia dei Rolandi e dei Pasteris. Poi la Ginnastica Triestina, quella dei “muli” rimasti nella loro città, poté portarsi al concentramento finale di Varese, ma i Bessi e Caracoi, i Radici e Cattarini, Bernini e De Feo furono superati dai loro più giovani emigrati a Milano. Dove cominciava a prender forma una fusione che avrebbe fatto confluire la nuova linfa sul vecchio, glorioso filone di prima». Qui, a dire il vero, Giordani fa un po’ di confusione, che possiamo immediatamente risolvere grazie ad un’occhiata ai tabellini. L’Onda Pavia, qualificatasi alle semifinali Nord (concentramento di Genova, 6-8 giugno 1946), arrivò 3° – troppo poco per qualificarsi – nel girone vinto dalla San Giusto Trieste; una settimana dopo, al concentramento semifinale Nord di Venezia (14-16 giugno 1946), la Dopolavoro Borletti vinceva il proprio girone, mentre 3° classificata risultava l’Edera Trieste. A Varese, dal 20 al 22 giugno si disputarono le finali Nord: la Reyer vinse il girone (venendo così ammessa alle finali nazionali), la Triestina arrivò seconda, la Ginnastica Triestina terza, la Dopolavoro Borletti ultimo, perdendo tutti gli incontri. Qualche giorno dopo, al concentramento di Reggio Emilia vinto dalla Virtus Bologna, il San Giusto Trieste sarebbe risultato secondo.

Cesare Rubini con la maglia n. 9 del Borletti Milano

Narrando le gesta della Borletti e dell’Olimpia, Giordani passa giustamente poi a raccontare quella del protagonista indiscusso di quegli anni, quel Cesare Rubini (Trieste, 1923 – Milano, 2011) del quale sottolinea accenna pure un profilo politico sul quale poi avremo modo di tornare: «nel gruppo di triestini che si era rifugiato in Lombardia c’era un aitante ragazzone, che si era fratturato un polso dando il fatto loro, in Piazza dell’Unità, alle orde dell’interno che osavano contestare l’italianità della città di San Giusto. Li aveva riuniti sotto la Madonnina quel loro (quasi) coetaneo [= Adolfo Bongoncelli], quel giovane industriale originario di Treviso, che aveva studiato a Modena e lì si era appassionato di basket […]. Il giovanotto dal polso ingessato, che scese comunque in campo nel primo concentramento finale dell’Alta Italia, era Cesare Rubini. L’industriale di larghe vedute e di grande passione era Adolfo Bogoncelli, che con loro – dopo il G. S. Triestina – aveva fondato la “Olimpia” di Milano e che le condusse poi a fondersi col Borletti, in grave difficoltà».

Se non siete ancora convinti, scende in campo pure Bill Clinton per dirvi quanto Cesare Rubini sia stato importante per la storia del basket…

Come ci ricorda la voce del Dizionario Biografico degli Italiani curata da Silvio De Majo, Rubini era «secondogenito di una famiglia di dalmati emigrati verso l’Italia dopo il trattato di Rapallo del 1920, che aveva assegnato quasi tutta quella regione alla Iugoslavia. In questa circostanza il cognome Rubcich fu italianizzato in Rubini. Il padre Mirko, di Sebenico (od. Šibenik in Croazia), apparteneva a una famiglia borghese (il padre era presidente del tribunale di Spalato, od. Split in Croazia) ed era comandante di macchina sulle navi della marina; la madre, Maria (o Maritza) Orlandini, proveniva da una famiglia montenegrina». Intervistato da Luigi Bolognini per un volume pubblicato nel 2003, fu lo stesso focoso Rubini a ritrarsi come uomo di sinistra, ma al contempo orgogliosamente patriottico: «“sono di sinistra — fascista smetto di esserlo vedendo l’arroganza e la prepotenza di italiani e tedeschi durante l’occupazione della mia Trieste, vedendo la Risiera di San Sabba — ho solo una personalità forte”. Sì, forte. Magari come la botta che tira al tale che sugli spalti del Palasport di Pesaro gli urla “s’ciavo”: balza in tribuna, lo afferra e gli spacca il naso. “Non resisto mai quando qualcuno mi chiama così, piombo sul pubblico e scaravento giù chi l’ha detto. È umiliante, perché mia madre fin da piccolo mi dice sempre: “noi siamo italiani due volte, dopo la Prima Guerra abbiamo scelto noi di lasciare la Dalmazia”. E quando sento “Fratelli d’Italia” io mi commuovo sempre. Altro che s’ciavo”».

Cesare Rubini come coach della Simmenthal Milano che festeggia assieme ai propri giocatori per la vittoria sull’Ignis Varese (68-61), nella finale spareggio del campionato 1961/1962

Che Rubini fosse particolarmente focoso, è risaputo da tutti gli appassionati di storia della pallacanestro. Come ricordato da Oscar Eleni, «le dava e le prendeva, a Limoges fu parte attiva nella famosa rissa con gli jugoslavi, una storia lunga per chi aveva origini spalatine e aveva combattuto davvero per l’italianità di Trieste, per chi era stato messo a terra da un calcio in una partita a Belgrado contro la Stella Rossa». L’esempio di quanto accaduto nel 1983 ci mostra come questo dato caratteriale, che aveva caratterizzato Rubini in gioventù come giocatore, non lo abbandonò affatto nemmeno nella sua successiva carriera sulla panchina, come del resto ammesso proprio da lui: «Non avevo pietà per i miei giocatori, gli allenamenti erano certo più duri di molte partite del campionato. Se un mio giocatore diceva che non poteva farcela cercavo di forzarlo, volevo eroi, lo ammetto, e molti lo sono stati».

Quando anche Instagram può servire per la divulgazione della storia dello sport, addirittura su un argomento di solito bistrattato come la tutela delle fonti materiali…

Ciò che tuttavia è più interessante, a livello storico, nell’intervista di Bolognini, non è tanto il singolo episodio di Pesaro, quanto il contesto nel quale esso viene inserito da Rubini stesso. Nella continuazione di quell’intervista, infatti, parlando del periodo in cui la Triestina Milano era «una società in trasferta permanente a Milano», Rubini ci tenne a puntualizzare la propria collocazione politica, equidistante sia dal nazionalismo italiano sia da quello jugoslavo: «il clima lo si può immaginare, tra Tito e il nazionalismo italiano di Vola colomba». Una puntualizzazione utile per noi, storici ed appassionati del Terzo millennio, ormai così lontani da quelle vicende politiche che tanto sapevano accendere ardori politici e sportivi, nell’Italia che cercava una propria rinascita civile dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, appendici adriatiche comprese.

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Marco Giani
Storico e insegnante, è membro della Società Italiana di Storia dello Sport. È autore di “Capitane coraggiose” (2023), di diversi articoli accademici sul calcio femminile in Italia nonché del saggio in calce a “Giovinette” (2020) di Federica Seneghini.

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