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Eugenio Monti, venti anni fa il colpo di pistola del Rosso Volante

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Il 30 novembre 2003 un’ambulanza sfreccia per le strade che collegano Cortina d’Ampezzo a Belluno. Dentro c’è Eugenio Monti, uno dei bobbisti più titolati della storia, che viaggia tra la vita e la morte. Pochi istanti prima si trovava nel garage della sua residenza a Cortina, dove prese una pistola, se la puntò alla testa e sparò. Morì il giorno seguente, il 1 dicembre, a 75 anni a causa delle lesioni cerebrali. Le parole sono troppo distanti e piccole per descrivere a fondo un gesto simile, quando le imprese di una vita intera sono apparse vacue agli occhi di Monti, in preda al morbo di Parkinson e alla solitudine. Scelse di liberarsene. Di quel giorno resta una lettera, tracce della depressione.

La sua carriera, anche quando smise di salire su un bob, ci parla di tutto tranne che di fragilità. Il suo mito parte proprio dalla forza di volontà, quando a poco più di venti anni è la grande promessa dello sci alpino italiano. Campione italiano in slalom speciale e gigante. Va forte anche in discesa, dove dà filo da torciere a Zeno Colò, riuscendo pure a batterlo una volta. Tutti sono sicuri: i Giochi Olimpici di Oslo 1952 saranno il suo trampolino di lancio. Invece l’anno prima in allenamento cade rovinosamente, i legamenti del ginocchio saltano. Al termine di duri mesi di riabilitazione, appena ripresi gli sci, si ripete lo stesso copione. Nell’addio alla neve scopre il ghiaccio e quello che doveva essere un ripiego, lo consegna alla leggenda. Nove medaglie d’oro ai Mondiali, di cui sette nel bob a due: il più vincente della storia fino al 2021 e agli innumerevoli trionfi di Francesco Friedrich. Sei medaglie olimpiche, dai due argenti a Cortina d’Ampezzo 1956, passando per i due bronzi a Innsbruck 1964 e concludendo con i due ori a Grenoble 1968, a quarant’anni. In mezzo ci fu Squaw Valley 1960, organizzata da un miliardario californiano, Alex Cushing, nella piccola cittadina montana al confine col Nevada, che decise però di non investire sulla costruzione di una pista da bob. Diceva che avrebbe interessato pochi Paesi, non ne valeva la pena (vi ricorda qualcosa?). Un colpo di pragmatismo improvviso che negò quindi la partecipazione anche allo stesso Eugenio Monti.

Le medaglie meno pregiate conquistate sulla pista austriaca, furono accompagnate dal più bel riconoscimento che un atleta possa ricevere dal CIO: la medaglia Pierre de Coubertin. Il primo nella storia a riceverla fu proprio Monti, un’onorificenza simbolo dello spirito sportivo. Il premio più significativo e più difficile da raggiungere in un mondo intrappolato spesso nella competizione più spietata e nel mito della vittoria. Per il Rosso Volante fu invece molto semplice. All’equipaggio britannico, composto da Tony Nash e Robin Dixon, si ruppe un bullone a pochi istanti dall’ultima discesa. Monti non esitò a dagli il suo. I britannici conquistarono l’oro, lui e il frenatore si fermarono al terzo posto. La stampa italiana, in procinto di celebrare il tanto atteso successo a cinque cerchi, lo criticò per l’aiuto concesso agli avversari. Con la schiettezza di sempre rispose: «Nash non ha vinto perché gli ho dato il bullone. Ha vinto perché è andato più veloce». Un gesto che assume ancora più valore se pensiamo che per il campione di Dobbiaco quella sarebbe stata, a sue parole, l’ultima possibilità per spezzare la maledizione olimpica. Aveva anticipato di volersi ritirare dopo Innsbruck ’64, dove fu portabandiera. Vinse ancora una volta la caparbietà.

Eugenio Monti si presentò al via dei Giochi di Grenoble 1968 e sfatò il tabù, con un doppio successo nel bob a due, insieme al romano Luciano De Paolis, e nel bob a quattro, con lo stesso De Paolis, Mario Armano e Roberto Zandonella. Uomini di fiducia, a cui erano dedicate le prime parole delle interviste rilasciate subito dopo ogni trionfo. Curioso come il primo oro sulla pista dell’Alpe d’Huez, una montagna già sinonimo di vittoria azzurra con Fausto Coppi nella prima apparizione al Tour de France 1952, arrivò dopo quattro manche concluse con lo stesso tempo della Germania Ovest. Valse la discesa più veloce in assoluto, quella della coppia italiana.

Venti anni fa, invece, Eugenio Monti decise che il tempo era scaduto, lo fermò. Rossi i capelli, rosso il bob, rosso il carisma, rosso, infine, il sangue. Monti che trascorse una carriera a inseguire la traiettoria migliore, non accettò quella che la vita aveva disegnato per lui. La morte per overdose del figlio Alex a 24 anni, il divorzio dalla moglie statunitense Linda, seguita dalla figlia Amanda, poi il Parkinson che gli spezzò le ali.

Il Rosso Volante ci ha lasciato da imprenditore. Dopo essersi ritirato, dedicò anima e corpo ai suoi impianti di risalita a Cortina, fondando due società e diventando uno degli artefici dello sviluppo del turismo invernale. La passione per la velocità si affiancò a quella per le auto e partecipò anche a qualche gara, dopo un corso di guida sportiva tenuto dal pilota Piero Taruffi. Poco dopo la morte gli fu intitolata la pista di Cortina, recentemente demolita. In uscita dalla curva 4 dell’Olympia Bobrun St. Moritz-Celerina c’è un monumento, il Monti’s bolt, il bullone di Monti, in ricordo del gesto compiuto per Nash e Dixon.

Immagine in evidenza: © LaPresse

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Marco D'Onorio
“Lo sport avrà tanti difetti, ma a differenza della vita nello sport non basta sembrare, bisogna essere" (G. Mura). Fondatore di Vita Sportiva.

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